di Giulia Crivelli
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Il profit warning lanciato da Zalando venerdì 24 giugno, che ha avuto effetti molto negativi sul titolo della piattaforma di e-commerce di moda quotato a Francoforte, potrebbe non essere un campanello d’allarme solo per le società e i marchi nativo digitali. Considerando il settore in cui opera il portale, l’abbigliamento e gli accessori, si può allargare lo sguardo.
Nel 2021 e al più tardi nella prima parte del 2022, la stragrande maggioranza dei marchi del medio-alto e alto di gamma sono tornati ai livelli di fatturato e redditività pre pandemia e in alcuni casi li hanno superati, grazie a un mix bilanciato dei canali di vendita: la forte ripresa del retail ha rallentato la crescita delle vendite online, ma non si è trattato di una vera cannibalizzazione. Piuttosto, dall’evoluzione verso la multicanalità, con negozi fisici e digitali che puntano a offrire lo stesso tipo di esperienza di shopping, di contatto con un brand e i suoi valori, il suo stile, prima ancora che con i suoi prodotti. Tanto che Marco Palmieri, fondatore e presidente del gruppo Piquadro, imprenditore da sempre precursore dei cambiamenti, si è chiesto di recente se valga ancora la pena di segmentare le vendite per canale o se convenga piuttosto considerarle nel loro complesso, anche perché non esiste algoritmo che possa spiegare chi ha scelto di comprare online dopo aver visitato un negozio o, viceversa, che finalizzi in presenza un desiderio nato sul web.
E qui sta un primo legame con i problemi di Zalando e altre piattaforme: nonostante alcuni tentativi (ci ha provato anche Jeff Bezos aprendo librerie e supermercati fisici), il modello di business è basato quasi esclusivamente sulla vendita online e sulle spedizioni. Molti grandi marchi hanno approfittato della pandemia e dei lockdown per capire come gli strumenti digitali potessero migliorare l’esperienza fisica, una volta che i negozi avessero riaperto. Non si tratta solo di Crm o diavolerie, come camerini virtuali o touchscreen interattivi, che non hanno sfondato. Ci si è mossi, ad esempio, per mettere la logistica costruita intorno all’e-commerce al servizio degli spazi fisici di vendita, abbattendo in molti casi i costi fissi dei negozi con grandi magazzini. Un processo che non può avvenire nell’altro senso.
Lo spostamento superfluo delle merci è da sempre un grande problema per l’e-commerce di moda: per conquistare clienti, a partire da vent’anni fa, quando nacque Yoox, si promise a tutti resi gratuiti e con tempi lunghissimi. Il risultato? Molti, ancora oggi, comprano tre taglie dello stesso vestito, per essere sicuri di avere quella giusta, e invariabilmente ne restituiscono due. Non è più così semplice rispedire a costo zero e i tempi per farlo sono diminuiti, ma la logistica e i trasporti – con tutti i costi per l’ambiente che comportano – restano un costo altissimo per piattaforme che promettono consegne in centinaia di Paesi in poche ore o giorni. Il che prevede extra costi di trasporto e magazzini in ogni area geografica.
E qui veniamo all’incognita più importante che pesa sull’industria della moda, dal fast fashion al lusso: la sostenibilità. Giganti come H&M, Inditex, Mango e Ovs in Italia stanno moltiplicando gli sforzi per ridurre l’impatto sull’ambiente, investendo nei processi e nei materiali, ma il peccato originale resta. Il modello è stato chiamato fast per la velocità del time-to-market e del riassortimento mensile se non settimanale dei negozi, fatto per stimolare gli acquisti con le novità, oltre che con il prezzo. Alle inchieste che svelavano come il modello si reggesse, anche, sull’assenza di sostenibilità sociale (eufemismo, perché c'è chi parla di autentico sfruttamento del lavoro minorile e in generale dei Paesi in via di sviluppo), le aziende - specie quelle quotate – hanno reagito aumentando trasparenza e tracciabilità. Ma potrebbe non bastare: le nuove generazioni sembrano saziarsi di moda più in fretta di chi li ha preceduti, preferiscono un capo che costa dieci volte un altro ma dura nel tempo. Un cambiamento che tocca pure il lusso, dove fioriscono le piattaforme e i servizi in negozio di reselling, per dare una seconda vita a ciò che ci ha stufato, ma che non vogliamo buttare. Non è ancora un modello circolare, ma potrebbe diventarlo (si sta estendendo dal lusso al medio di gamma) e forse ancora una volta la moda accelererà i cambiamenti della società.
Giulia Crivelli
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