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Regole uniformi a tutela degli interessi di mercato e società

di Federico Maurizio d'Andrea e Maurizio Onza

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28 gennaio 2022
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3' di lettura

Lunghi e appassionati dibattiti sull’impresa e la sua responsabilità accompagnano questi tempi incerti e, in questa incertezza, trovano nuovi spunti e prospettive.

Ultimamente, l’approfondimento sul tema è stato indotto anche dalla riflessione su regole che tendono a conformare l’attività di impresa a interessi che non sono direttamente riconducibili al mercato.

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Sono regole già in vigore da un po’ (e ora oggetto di revisione estensiva: si pensi alla disciplina sulle dichiarazioni non finanziarie o alle società benefit); regole nuove, in divenire (ad esempio, la proposta di direttiva su dovuta diligenza e responsabilità delle imprese); regole, imposte da “altri” (da fonti nazionali o dell’Ue) o dalle imprese stesse nell’esercizio della loro autonomia (così, ad esempio, nel Codice di autodisciplina sulle società quotate).

A ben guardare, le regole oggetto oggi di maggiore, se non esclusiva, attenzione si riferiscono alla tutela di interessi diversi da quelli ascrivibili ai clienti (in sé, quali consumatori – singoli o come classi – tipicamente il “consumatore medio” referente delle pratiche commerciali scorrette), ai concorrenti, ai creditori, ai lavoratori, ai finanziatori, ai risparmiatori. Storicamente, per la tutela degli interessi di questi soggetti, l’ordinamento giuridico ha approntato sistemi di norme, più o meno stabili e più o meno “organiche”, dirette, essenzialmente, (i) a impedire alterazioni del mercato causate da alterazioni (lato sensu) delle scelte dei suoi attori; (ii) a fronteggiare la possibile “uscita” dal mercato dell’impresa.

In un contesto siffatto, crediamo che l’analisi (e la riconsiderazione) di queste regole su impresa e responsabilità, può (e deve) essere svolta in una prospettiva assai diversa, collocando, concettualmente, le stesse regole “fuori” dal mercato, secondo un modello non dissimile dai limiti all’iniziativa economica privata eretti nella Costituzione; la nostra analisi vuole muovere dall’indispensabilità di quelle regole, prendendole “sul serio” per ciò che sono senza esaltazioni, che conducono all’avvio di “mode”, e senza preconcetti, che le relegano all’irrilevanza. Regole che, in qualche modo, ci sembrano gravitare attorno alle condizioni di esistenza stessa di un mercato e della sua persistenza (se si concede la produzione di beni distruggendo l’ambiente prima o poi non nessuno potrà produrre alcun bene).

Dando per scontata l’insopprimibilità dell’economia di mercato e, così, del profitto, vogliamo dunque richiamare l’attenzione sulla considerazione che la modalità con la quale questo si realizza non è indifferente e, anzi, nella nostra visione, deve tendere vieppiù a conformarsi a quegli interessi “fuori” mercato, in un rapporto tra impresa e contesto, se si vuole tra “privato” e “pubblico”, del tutto diverso e inedito, come abbiamo già provato a tratteggiare.

In questo processo di conformazione del perseguimento del profitto alla tutela di interessi “fuori” dal mercato, ci sembra utile evidenziare, innanzitutto, la necessità di regole, non solo, come ovvio e come pure abbiamo già scritto, chiare e semplici, ma, prima ancora, uniformi e proporzionate all’impresa: e questo è un compito che spetta ai decisori politici e a coloro che pongono le regole, valutando il rischio di lesione degli interessi al rispetto o alla promozione dei quali la conformazione è diretta; e così scegliendo il contenuto di quelle regole.

Questa evidente, pur se, a volte, sottovalutata linea di demarcazione, ci porta a sostenere che, mentre la mancanza o il difetto di conformazione alle regole date deve provocare conseguenze giuridiche sull’impresa in termini di responsabilità, la loro mancata promozione da parte dell’impresa stessa deve provocare, eventualmente, conseguenze “sociali” (in senso ampio), non dovendosi affidare alle imprese un obbligo di perseguimento di obiettivi di “contesto”; obiettivi la cui scelta e la promozione dei quali è e deve restare scelta politica. Forse, allora, per “governare” quella responsabilità al servizio di interessi “fuori” dal mercato, si potrebbe proporre, in una versione ammodernata e semplificata, l’utilizzo, come si è da taluni abbozzato, di modelli di conformità, sul tipo del modello di organizzazione introdotto con il d.lgs. n. 231/2001 in combinazione con “certificazioni” da parte di enti, anche formalmente privati, nei quali rappresentare, attraverso regole sulla scelta dei preposti al loro governo, gli interessi cui conformare l’attività di impresa. Soggetti terzi, candidati a svolgere una funzione non tanto “pubblica”, quanto per il pubblico, per il contesto nel quale l’impresa opera, disegnando un’interazione tra impresa e contesto che possa bilanciare la produzione di beni e servizi con il benessere di ciascuno, con il fine ultimo della salvaguardia dell’esistenza di tutti e di ciascuno.

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