di Giovanni Tria
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I prossimi negoziati per la revisione delle regole fiscali e di bilancio in Europa saranno inevitabilmente influenzati dall’evoluzione di un’inflazione che sempre meno appare come temporanea, sia negli Stati Uniti sia in Europa, anche se l’aggettivo temporaneo si presta a interpretazioni elastiche. Se andiamo al dibattito pre-pandemico, quando lo spettro era la deflazione, l’uso della leva monetaria da parte della Bce per contrastare la dinamica negativa dei prezzi e riportarla vicino all’obiettivo del 2% si scontrava con politiche di bilancio non accomodanti rispetto all’azione di espansione monetaria. In altri termini, il tema in discussione era il non coordinamento in Europa tra politica monetaria e politica di bilancio, essendo la prima decisa a livello sovranazionale mentre la seconda era, ed è tutt’ora, decisa a livello nazionale, con una occhiuta sorveglianza europea incentrata sul rispetto di regole di contenimento dettate da sfiducia reciproca tra i Paesi membri. Veniva sostanzialmente ignorata l’idea che le politiche di bilancio nazionali dovessero essere coordinate in funzione anche di obiettivi di stabilizzazione e crescita economica dell’Europa nel suo insieme. Il tema è ancora questo. Il vero convitato di pietra nella ridefinizione del Patto di stabilità e crescita è l’assenza di una sufficiente discrezionalità a livello centrale nel coordinamento tra politica monetaria e politica di bilancio. Tutti gli schemi di ingegneria istituzionale in discussione non possono eludere questo nodo, che è prettamente politico e che si ripropone oggi in un contesto in cui questo coordinamento serve a tenere a bada l’inflazione, non la deflazione come in passato, senza scaricare l’onere dell’intervento solo sulla politica monetaria. Il problema, peraltro, si pone ancor prima della definizione delle nuove regole.
Abbiamo già sostenuto in queste pagine che è corretta la prudenza con la quale la Bce si appresta a uscire dal programma di acquisto di titoli con il quale ha permesso ai governi europei nel corso della pandemia di indebitarsi a costi sostenibili e di garantire liquidità al sistema produttivo. Tuttavia, abbiamo anche sostenuto che il motivo addotto, quello della temporaneità della fiammata inflazionistica, fosse poco convincente e anche rischioso. Con un’inflazione europea al 5%, non molto inferiore a quella del 7% registrata negli Stati Uniti, la Bce potrebbe presto trovarsi a corto di argomenti di fronte alla svolta della Fed che ha annunciato un prossimo rialzo dei tassi di interesse, qualora questo divario di inflazione dovesse restringersi o permanere sui livelli attuali. Qui rientra il tema del coordinamento tra politica monetaria e di bilancio. L’economista francese Jean Pisani-Ferry ha di recente negato (European Inflation is not American Inflati on, Project Syndicate, 27/1/22) che si possa considerare l’inflazione negli Stati Uniti simile a quella in Europa, e non solo per il divario quantitativo sopra richiamato. Sostanzialmente l’inflazione negli Stati Uniti sarebbe peggiore di quella europea perché non dovuta solo a strozzature di offerta, ma anche agli stimoli fiscali molto più forti e generosi. Tra l’altro le strozzature di offerta dovute a carenza di forza lavoro sarebbero più forti negli Stati Uniti proprio a causa degli interventi eccessivi di sostegno diretto alle famiglie in assenza di un sistema più strutturato di welfare. Se ciò è vero, ma lo è solo al netto di spinte inflazionistiche che sono globali e non solo occidentali, la conseguenza è che l’inflazione in Europa va gestita, anche per il prossimo futuro, con un mix di politica monetaria e politiche di bilancio, evitando di strozzare l’economia con un aumento dei tassi di interesse che agirebbe più dal lato di un aumento dei costi che come freno della domanda. Per consentire alla Bce di non seguire la Fed sulla strada della stretta monetaria si dovrebbero, di conseguenza, adottare politiche di bilancio ben mirate in una fase in cui la ripresa attraversa un periodo complesso. La ripresa economica è forte nella maggior parte dei Paesi europei, ma siamo ancora al rimbalzo dopo il crollo del 2020 (la Germania, dove la riduzione del Pil è stata meno forte durante la crisi, oggi cresce meno) e si teme un rallentamento prematuro a causa dei costi determinati dalla crisi energetica ancor prima dell’adozione di una eventuale restrizione monetaria anti inflazione. Anche la politica di bilancio non può quindi virare in Europa troppo rapidamente verso una riduzione degli stimoli fiscali, ma perlomeno dovrebbe guardare alla composizione del bilancio, dal lato sia della spesa sia delle entrate, prestando attenzione al profilo temporale di stimoli di domanda rivolti verso settori che già mostrano difficoltà di adeguamento dal lato dell’offerta. Per essere più espliciti, in Italia non c’è più spazio per distrazioni quali quelle che hanno consentito di portare avanti provvedimenti come il bonus al 110%, che generano stimoli inflazionistici in settori surriscaldati sottraendo, al tempo stesso, risorse pubbliche necessarie per calmierare i costi energetici e rallentare l’avvio di spirali inflazionistiche. Ugualmente sarebbe utile ricontrattare con l’Europa il timing di vari programmi del Pnrr laddove questi si dovessero scontrare con oggettive carenze di offerta nel breve periodo con la conseguenza di alimentare l’aumento dei prezzi. Il controllo dell’inflazione dipende anche dal controllo della composizione della domanda, preferibile all’intervento delle banche centrali che non può essere selettivo.
Il parlamento sembra aver raggiunto un accordo di massima sulla legge delega per la riforma fiscale. Il punto più condiviso è quello che riguarda la necessità di ridurre la pressione fiscale diretta, cioè l’Irpef, sulle classi di reddito medio basse. Ma per ciò che riguarda la dimensione possibile di questa riduzione, un tema che sembra dimenticato nel dibattito è quello del possibile spostamento del prelievo dalle imposte dirette (Irpef) alle imposte indirette (Iva), cioè dai redditi dei fattori produttivi, che nel caso dell’Irpef sono sostanzialmente i redditi da lavoro, oltre che da pensioni, alla tassazione dei consumi. Il ministro Tremonti definiva questo spostamento “dalle persone alle cose”. Una dimenticanza che è molto strana perché, in un periodo di europeismo condiviso, si elude proprio una raccomandazione tradizionale della Commissione europea. Una raccomandazione il cui fondamento sta nel fatto che questo spostamento del prelievo favorisce la crescita a parità di pressione fiscale complessiva. La ragione è che si ridurrebbe il cuneo fiscale, che entra nei costi di produzione, determinando un aumento delle remunerazioni al netto delle tasse. Ma questo spostamento di prelievo sarebbe anche utile alla crescita perché determina una “svalutazione fiscale”, poiché l’Iva non grava sulle esportazioni, mentre colpisce i consumi di beni e servizi importati in egual misura rispetto a quelli prodotti sul territorio nazionale. In tal modo si recupera competitività internazionale. Non è un caso, inoltre, che nell’economia globalizzata, per tassare localmente i profitti delle multinazionali, si stia valutando di prendere come riferimento le loro vendite nei vari Paesi. E anche nelle discussioni sulla tassazione delle ricchezze si mette in rilievo che quelle personali, in vario modo legalmente o non legalmente occultate, si riflettono nel livello di vita dei beneficiari
al momento del consumo.
Il fatto rilevante è che seguire questa strada permetterebbe oggi una riduzione del prelievo Irpef sui redditi medio-bassi doppio o anche triplo rispetto a quello di cui si discute e ciò faciliterebbe la definizione del “metodo” con il quale ridurre in misura percepibile l’imposizione diretta sulle classi di reddito medio e medio-basso. C’è da decidere, infatti, “come” operare la correzione e le sue dimensioni. In altri termini, vi è da una parte il problema di come finanziare la riduzione del prelievo Irpef e dall’altra il problema di definire la struttura del prelievo, il grado di progressività e come applicarla. Su questo secondo punto, il dibattito politico si è concentrato su due possibili alternative ben descritte, come hanno ricordato Paladini e Visco sul Sole del 30 giugno, nell’ottimo rapporto presentato in una audizione al Parlamento dal direttore generale del Dipartimento delle Finanze del Mef, la professoressa Fabrizia La Pecorella, e ben studiate nello stesso Dipartimento fin dal 2019. La prima alternativa consiste essenzialmente nella riduzione, da 5 a 3, del numero di aliquote applicate per scaglioni di reddito. La seconda ipotesi è quella di passare al cosiddetto modello tedesco, cioè disegnare una curva continua di aliquote marginali, che coinciderebbero sostanzialmente con quelle medie effettive, da applicare per ogni singolo livello di reddito. Avendo già preso posizione su questa rubrica a favore di questa seconda alternativa (15 agosto 2020), ne richiamo i motivi fondamentali. Le maggiori attrattive del modello tedesco risiedono nella sua trasparenza e nella sua flessibilità. Trasparenza perché ogni percettore di reddito saprebbe, senza fare calcoli personali, quale percentuale del suo reddito deve versare allo Stato, che è ben diversa da quella che si legge nella sua aliquota marginale. L’argomento di chi parla di complicazione “algoritmica” o matematica per la determinazione della curva delle aliquote è fuorviante perché il compito del calcolo è dell’amministrazione fiscale, e non è complicato perché basta decidere quale debba essere, mentre al contribuente verrebbe solo comunicata la percentuale effettiva del suo reddito che deve pagare. Quanto alla flessibilità, va considerata da un duplice punto di vista. Permette di decidere in modo mirato i livelli di reddito da beneficiare oggi con una riduzione di prelievo, disegnando con precisione la curva della progressività, ma permette anche con facilità di appiattire progressivamente, in futuro, la curva delle aliquote fino al livello desiderato di reddito. In altri termini, sarebbe facile spostare verso livelli superiori di reddito la progressività del prelievo dettato dalla Costituzione, man mano che l’equilibrio della finanza pubblica lo permetterà e secondo le scelte politiche discrezionali che sono alla base della democrazia. In ogni caso, deciso il metodo, l’importante è ridurre progressivamente in misura significativa la pressione fiscale sui redditi medi e medio-bassi. Lo si dice da decenni, almeno da quando l’inflazione alta fece lievitare i redditi nominali, ma non quelli reali, con la conseguenza che le aliquote concepite per redditi medio-alti finirono per colpire anche i medio-bassi. Il dibattito sul fiscal drag, come venne chiamato il fenomeno, fu intenso ma senza effetti rilevanti. La fame di gettito fiscale a fronte di spesa pubblica crescente, purtroppo non per investimenti, ha fino a oggi sempre collocato questa esigenza di correzione del prelievo nella cartella dei buoni propositi.
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