di Patrizia Maciocchi
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Non è diffamatoria la mail inviata dalla lavoratrice a tutti i superiori gerarchici per raccontare una discussione con il capo, nel corso della quale la dipendente si è sentita offesa. Il reato va escluso se quanto affermato nella posta, mandata a più destinatari, corrisponde alla verità e se il lavoratore si limita a riferire del comportamento disdicevole assunto dal capo nei suoi confronti, in orario d’ufficio e all’interno del luogo di lavoro, senza dare giudizi morali, utilizzare espressioni offensive o fare valutazioni ulteriori. Per la Cassazione dunque, scrivere a tutti i superiori, per riferire il contenuto della conversazione, questa sì con toni “forti” da parte del capo, si può se il solo intento è quello di informare i destinatari dell’accaduto.
La Suprema corte (sentenza 34777) conferma che il fatto non sussiste e respinge il ricorso del capo in questione, che si era costituito parte civile nel processo. I giudici di legittimità, con l’occasione, ricordano che l’accertamento del reato si fa esclusivamente in base alle espressioni utilizzate e al significato obiettivo che la frase assume «all’interno di un determinato ambiente e in uno specifico contesto storico». Mentre non contano la suscettibilità personale e la considerazione che ciascuno ha di sé o il semplice amor proprio. Partendo da questi principi la Cassazione sottolinea che non vanno considerate come offese alla reputazione «le sconvenienze, l’infrazione alla suscettibilità o alla gelosa riservatezza». E neppure la mail di “denuncia”.
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