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Mennea, la “Freccia del Sud” che sconvolse l’atletica mondiale

di Dario Ceccarelli

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(EPA)

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Una carrellata di campioni dello sport italiano che hanno appassionato generazioni di tifosi e che hanno lasciato il segno fino ad oggi

22 gennaio 2023
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7' di lettura

Non è mai stato facile avvicinarsi a Pietro Paolo Mennea, l'uomo più veloce del mondo sui 200 metri dal 1979 al 1996. Non è mai stato facile perché Pietro viveva come correva e correva come viveva. Sempre lanciato, sempre con un avversario da battere, con un traguardo da afferrare. Dentro aveva un fuoco, un fuoco sempre acceso. Che ustionava chi si avvicinava. E che lo rendeva quasi un alieno, abrasivo, inafferrabile anche a se stesso.

Anche quando ha lasciato la pista, dopo 530 gare e 17 anni di agonismo, non si è fermato. Ha ripreso a correre più di prima per recuperare il tempo perduto. Un'attività forsennata. Quattro lauree, 23 libri, un intenso impegno da avvocato e da europarlamentare. Ogni tanto si fermava per partecipare a un dibattito, a qualche conferenza dove si divertiva a spiegare che lui, l'uomo più veloce del mondo, non era un superdotato come Usain Bolt o Tommie Smith. No, lui era un ragazzo di Barletta, bassino e poco muscoloso, venuto su con la pasta al forno di mamma Vincenza. «Se ho fatto quello che ho fatto - diceva Mennea, lo devo solo a una cosa: che ho lavorato come un pazzo. Anche sei ore al giorno. Mi allenavo sempre, anche di nascosto. Perfino il mio allenatore, Carlo Vittori, spietato come me, ogni tanto mi diceva che potevamo andare, che avevamo finito. Ma io niente, andavo avanti, perché non ho mai avuto paura della fatica…».

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Che fenomeno, Pietro Paolo Mennea, nato a Barletta il 28 giugno 1952 e morto nel 2013, per un improvviso tumore che se l'è portato via proprio il primo giorno di primavera, come sua madre cui era legatissimo. «Lei voleva che studiassi, che non mi facessi travolgere dal demone dello sport. Per farmi capire che non scherzava, un giorno mi ha tirato un bicchiere in testa. Quel bicchiere non me lo sono mai scordato».

Un atleta diverso dagli altri

In una disciplina di atleti straordinari, di giganti alti quasi due metri o comunque di muscolatura possente, Pietro Mennea è una strana un'eccezione, un Calimero piccolo e bianco, che perfino il suo allenatore, Vittori, quando per la prima volta lo vede correre ad Ascoli nel 1968, non lo prende sul serio. «Sì, mi disse che ero bravino, ma pallido e tutto ossa. Che avrei dovuto mangiare tante bistecche», racconterà divertito anni dopo Mennea. «Non è vero», smentirà lo stesso Vittori. «Pietro aveva fatto il record nei 300 metri, ma mi sembrava un pugliese glabro e scomposto. In realtà era già forte, solo che mi ero fatto imbrogliare dalle apparenze».

Scappa sempre in avanti, Mennea. Anche da ragazzo. Figlio di un sarto e di una casalinga, due fratelli e una sorella, Pietro non sta fermo. Studia ma sente il richiamo della corsa, delle sfide con gli amici. Va forte, soprattutto sulle distanze brevi. E a Barletta si fa un nome. Al punto che lo vengono a sfidare da fuori. Ma con delle auto: Porche, Alfa Romeo 1750 , lui a piedi e loro al volante sui 50 metri. «Di sera io ero già a letto e mi venivano a cercare. Facevano delle scommesse, ma io al massimo mi guadagnavo un biglietto per il cinema. Comunque, vincevo sempre io…». È un'Italia ormai fuori dalle durezze del Dopoguerra. C'è aria di movimento, c'è il vento del '68. E Mennea quel vento se lo porta con sé, anche se alla politica non si interessa. Vuole correre, quello è il suo chiodo. È disposto ad ogni sacrifico. E dopo aver preso il diploma di ragioneria, molla gli amici e la famiglia per andare nell'unico posto che può disciplinare il suo fuoco interiore. Il centro Bruno Zauli di Formia, un severo convento dello sport, dove si può lavorare dalla mattina alla sera.

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. AFP PHOTO (Photo by AFP)

Concentrato solo sul lavoro

Pietro fa razza a sé. Sempre con Carlo Vittori, il suo allenatore. Una coppia di sadici flagellatori con il cronometro in mano. «Abbiamo passato mesi a Formia e non c'è stato una sera in cui sia uscito con noi a mangiare una pizza», dirà Sara Simeoni, medaglia d‘oro nel salto a Mosca. Anche Livio Berruti, figura leggendaria, oro nei 200 metri alle Olimpiadi di Roma '60, era perplesso: «Per Pietro l'atletica era un duro lavoro. Non ho mai visto nessuno come lui. Io volevo divertirmi, eravamo Platone ed Aristotele…».

Eccolo Pietro: un italiano poco italiano. Un figlio del sud inflessibile come un generale tedesco. Pietro è tante cose assieme: ombroso, rabbioso, antipatico, spigoloso. «Lo sport è come la vita», dirà poi lui dopo aver ottenuto il record del mondo sui 200 metri a Città del Messico e l'oro a Mosca sempre sui 200. «Se vuoi ottenere i risultati ti devi allenare. Metterci il cuore, la passione, la volontà. Senza questi elementi, non si va da nessuna parte. Allenandomi non mi sono mai infortunato. Mai una lesione grave. Un giorno Steve Williams venne a Formia per guardare il mio programma di allenamento. Mi sembra perfetto da diluire in una settimana, mi disse. Io lo faccio in un giorno, risposi».

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. ANSA

Il mito della Freccia del Sud

Un curriculum lungo e sontuoso, quello di Pietro, 29 medaglie (18 d'oro), soprannominato anche la Freccia del Sud, come il famoso treno espresso che collegava Milano con la Sicilia. Mennea è stato l’unico duecentista della storia che sia si qualificato per quattro finali olimpiche consecutive (dal 1972 al 1984). Senza dimenticare che partecipò (subito eliminato) anche a Seul '88, la sua quinta e ultima Olimpiade.

Quando Mennea scendeva in pista, si fermava a guardarlo in tv anche l'Italia del calcio. «Mennea e la Simeoni erano gli unici casi in cui l'atletica faceva lievitare la vendita delle copie», farà notare Giorgio Tosatti, direttore del Corriere dello Sport e opinionista televisivo.

Una carriera lunghissima, ma con due immagini memorabili. Stampate nella memoria collettiva. Quella più emozionante, folgorante, è quella che si sublimò il 28 luglio 1980, allo stadio Lenin di Mosca, in occasione delle Olimpiadi boicottate dagli americani. Olimpiadi contestate, certo, ma comunque palcoscenico leggendario. Pietro, pur portandosi dietro il record mondiale ottenuto a Città del Messico l'anno prima (19”72), non è tranquillo. Sente che quella Olimpiade è la sua ultima spiaggia. Ha già 28 anni, già due Giochi alle spalle con solo un bronzo a Monaco di Baviera dietro a Borzov e Larry Black. A Montreal gli era andata male, solo un quarto posto nel giorno del trionfo di Donald Quarrie. Una sconfitta mai digerita, perché Pietro nel 1976 era fortissimo: ma non quel giorno, non in quella finale.

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(Photo by Bob Thomas/Getty Images)

L’oro di Mosca 1980

Ecco perché a Mosca non può fallire. È la resa dei conti. Solo che deve partire dall'ottava corsia. Un sorteggio maledetto, perché è la corsia più esterna, la più complicata. Poi ha contro un avversario duro, collaudato, l'ingegnere scozzese Allan Wells, già oro nei 100 metri. Lo scozzese è tranquillo, solido, annusa la doppietta, senza aver nulla da perdere. Mennea invece è un fascio di nervi. E scatta male. Esce dalla curva scomposto, sbatacchiato dall'onda dei rivali, ultimo con Wells già in fuga. Ma qui avviene il miracolo: in preda a un furore che chissà da dove nasce , Pietro li sorpassa tutti, uno dietro l'altro. Una rincorsa incredibile che lo porta oltre ogni limite. Lo scozzese sbalordito s'impianta e Mennea vince alzando un dito al cielo. Il suo modo di esprime la gioia. Questo Mennea, che trionfa sulla pista di Mosca, è la sintesi della sua vita. Dove vince anche sbagliando, da imperfetto contro i perfetti. Tutto quel grumo sciolto, quella felicità leggera che spazza via sacrifici e pesanti rinunce. Una gioia esplosiva che è anche la fine di un incubo.

Una seconda immagine incancellabile, anche se meno affettiva, è quella di Città del Messico, quella del record sui 200 che per lui è un'altra stazione nel suo viaggio della velocità. In quel viaggio i suoi rivali, i suoi competitor, sono gli altri, gli americani, i neri, i predestinati naturali della pista. Mennea è il loro contrario: un bianco sgraziato che svanisce davanti ai giganti. Il gigante più gigante è Tommie Smith, quello del poster, con il pugno guarnito di nero alzato verso il cielo, che alle Olimpiadi del 1968 ripudia la bandiera americana. Un doppio mito: agonistico e mediatico. Il suo pugno contro il razzismo è anche un pugno che infrange la barriera dei venti secondi. Smith scende a 19”83, un limite che sembra invalicabile, realizzato con bellezza atletica perentoria. Che non ammette repliche, tanto più da uno pallido sfigatello pugliese cresciuto a orecchiette e pasta al forno.

Il record di Città del Messico

Eppure, quel 12 settembre 1979, Pietro Paolo Mennea, da Barletta, si fa beffe della Storia, della genetica, dei tanti pregiudizi che come ombre lo hanno sempre scortato. Il suo tempo, 19” e 72, fulmina i cronometri e irrompe nella case degli italiani che vedono in quel ragazzo normale uno dei nostri che ce l'ha fatta. Un Paolo Rossi dell'atletica, un made in Italy di cui si può essere orgogliosi. Ci vorranno 17 anni per superarlo. Carl Lewis lo mancò di 3 centesimi, Michael Marsh di uno. Alla fine solo Micheal Johnson, fallito una prima volta, lo abbasserà (19”32) nei Trials che precedevano i Giochi di Atlanta '96. Anni dopo, nella sua seconda vita, Mennea si divertirà a ironizzare sui suoi tabù. «Dopo quel record, incontro per caso, Cassius Clay - Mohamed Alì, in un campus in California. Mi stringe la mano, mi guarda e mi fa: ah, sei tu Mennea, quello dei 200? Ma tu sei bianco! Sì, ma dentro io sono più nero di te, risposi con una risata».

Addolcito dalla la maturità, e affiancato dalla moglie Manuela, pure lei avvocato, a Mennea piace raccontarsi. Gli piace soprattutto sfatare i pregiudizi, i falsi miti dello sport e dell'atletica. «Non date retta a tutte le balle che dicono sull'alimentazione o sulle predisposizioni. Se io sono arrivato dove altri hanno fallito, lo devo alla mia costanza…».

Divertente a questo proposito un incontro con Gianni Brera, maestro dei giornalisti sportivi. «Guardandomi mi chiese se per favore poteva toccarmi la testa e le spalle. Finito l'esame, concluse che io avevo degli avi nella Mesopotamia. Ma no, io sono di Barletta, gli risposi, non abbiamo avi in quelle terre lontane… Anni dopo, studiando la storia antica, scoprii che Brera si riferiva a un Mennea di un'importante famiglia della Mesopotamia imparentato con un generale ateniense dei tempi di Pericle… Bisognava insomma nobilitarmi con un avo della classicità, da solo non bastavo. Ma la mia forza aveva un nome solo: tenacia».

Finisce prematuramente la vita di corsa di Pietro Mennea. Muore il 21 marzo 2013. Il 28 giugno, San Pietro e Paolo, avrebbe compiuto 61 anni. Il male, lo porta via in pochi mesi. Velocemente, come era stata la sua vita. Ai ragazzi, cui non piaceva far sconti, Mennea amava dire che la giovinezza è un bene prezioso. «Io ho avuto tanto, in tutti i sensi. Però baratterei tutto, medaglie e record compresi, per una cosa sola: la vostra età. Con quella potete fare tutto, non scoraggiatevi mai. Seguite le vostre passioni, i vostri sogni. Fatelo con perseveranza. E arriverete al vostro traguardo».


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