di Alessandro Cravera *
(EPA)
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Il pensiero umano si fonda sulle analogie. Ricorriamo ad esse ogni volta che affrontiamo una nuova situazione. Se, ad esempio, prendiamo a noleggio un’auto che non abbiamo mai guidato prima, è grazie al ricorso all’analogia che riusciamo a comprenderne il funzionamento. Se non avessimo questa capacità di categorizzare la realtà ripartiremmo sempre da zero ogni volta che ci imbattiamo in qualcosa di nuovo. Saremmo disarmati come un neonato per il quale ogni nuovo concetto deve essere acquisito da zero.
Pur essendo il motore del pensiero umano, l’analogia rappresenta anche un potenziale limite alla nostra capacità di muoverci in contesti incerti. Il termine «in-certo» deriva infatti da «certus» e ha la stessa radice di cernere, che significa separare, dividere. Quando si hanno certezze si divide il vero dal falso, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Al contrario, quando siamo di fronte all’incertezza non possiamo dare valutazioni binarie, bianco o nero, vero o falso. Abbiamo davanti a noi tutta una gradazione di probabilità da 0 a 1, siamo nel mondo delle sfumature di grigio.
Di fronte all'incertezza la categorizzazione per analogia rappresenta solo uno dei due processi cognitivi che dobbiamo attivare. L’altro è la contestualizzazione. Il primo ci consente di vedere le similitudini rispetto al passato e a suggerirci velocemente delle linee di azione. Il secondo ci consente di vedere le eventuali differenze rispetto al passato. L'utilizzo combinato dei due processi cognitivi porta a chiederci se, per affrontare una data situazione, contino più le somiglianze o le differenze. Rende quindi la nostra azione più efficace in relazione alle condizioni e alla circostanza entro cui ci stiamo muovendo.
Dei due processi cognitivi, la categorizzazione prende spesso il sopravvento sulla contestualizzazione. Riconoscere le analogie, gli schemi, ci suggerisce una rapida linea d’azione. Porta efficienza alla nostra condotta, ma non sempre porta all’efficacia. Ottimizza la nostra azione nei sistemi ordinati, per i quali esiste una soluzione ottimale, ma non per quelli non ordinati, per i quali non esiste a priori una soluzione giusta a priori.
Il rischio della categorizzazione è la chiusura autoreferenziale. Di fronte all’incertezza tipica dei sistemi non ordinati ricorriamo a schemi e modelli automatici. In sostanza, non pensiamo al meglio delle nostre potenzialità. L’analogia può consolidare le nostre convinzioni. Sostenere, ad esempio, che l’esperienza ci dice che è sempre una buona cosa fare (o non fare) una certa azione, rappresenta un limite alla qualità del nostro pensiero. È come se ci limitassimo a seguire automaticamente una linea d’azione prescritta.
I proverbi popolari rappresentano un esempio di questa semplificazione della realtà. Quando si fa proprio il detto “meglio poco che nulla” o “chi ha tempo non aspetti tempo”, si sta ricorrendo a una categorizzazione che limita il pensiero. Altre persone, infatti, di fronte alla medesima situazione, potrebbero fare propri proverbi opposti: “o tutto o niente”, oppure “dai tempo al tempo”. In entrambi i casi quello che manca è la contestualizzazione, ovvero la capacità di percepire non solo le analogie ma anche le differenze rispetto al passato.
Come dice Berry Schwartz: “Un buon principio può renderci ciechi di fronte ad altri buoni principi con i quali deve essere bilanciato”. Questo rischio è ulteriormente accentuato dalla tendenza a creare regole, regolamenti e codici etici, che negli ultimi 15 anni si è sviluppata all’interno delle organizzazioni. Per affrontare la complessità e l’incertezza stiamo abusando di modelli prescrittivi che indicano il comportamento da tenere, la regola da seguire e la norma etica da adottare.
In ambiti certi, dove esiste un modo giusto di fare una cosa e molti modi sbagliati, questo modo di procedere è funzionale ed efficace. In ambiti più incerti, al contrario, rappresenta un ostacolo al pensare bene. Il codice etico di un’azienda, ad esempio, indica quali sono i principi universali che dovrebbero guidare le nostre scelte all’interno dell’organizzazione. Nella gran parte dei casi, il ricorso alle norme del Codice etico rappresenta una potente bussola per il comportamento delle persone. Tuttavia, non dobbiamo nascondere il rischio che tale norma possa diventare un alibi per smettere di pensare e adottare la nostra capacità di giudizio contestuale.
I discorsi su regole e norme tendono infatti ad essere assoluti, universali, per l’appunto. In contesti incerti, tuttavia, abbiamo visto che non è facile separare ciò che è giusto da ciò che non lo è, tutto è più sfumato e interpretabile. In queste situazioni dovremmo lasciare più spazio alla nostra capacità di contestualizzare, ad esempio chiedendoci se il mero rispetto di una norma può impedire di conseguire un risultato che è in tutto e per tutto coerente con il principio etico sottostante.
Talvolta seguire un principio in sé giusto può avere effetti contrari a quelli desiderati oppure impedire di ottenere un risultato su un principio etico altrettanto importante. Regole e norme etiche sono fondamentali per governare le nostre interazioni sociali. Non possono però sostituire il giudizio umano e la sua capacità di definire la migliore linea d’azione - coerente con un dato principio etico - in relazione a un determinato contesto. Vivere in un mondo complesso e incerto come quello attuale ci impone di dare più spazio alla nostra capacità di pensare bene e agire contestualmente. Per questo è urgente educare le persone ad usare al meglio le loro capacità cognitive.
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