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Leonardo Sciascia e la «doppiezza» delle parole nella sua Sicilia

di Salvatore Settis

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La pesca del pesce spada in Sicilia nel 1955

La pesca del pesce spada in Sicilia nel 1955

Per lo scrittore di Racalmuto la sua Sicilia era un insieme di luoghi abitati da uomini e donne, ma anche di usanze e costumi e soprattutto di termini capaci di definire incontri e scontri tra popoli

11 maggio 2021
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4' di lettura

Nel vocabolario di Leonardo Sciascia, «terra» non è solo quella che si coltiva, ma soprattutto i luoghi abitati, le donne e gli uomini che li popolano, le parole che usano, le usanze e i costumi, le verità e le menzogne. E ogni paese siciliano «di mare o di montagna, di desolata pianura o di amena collina» (ma specialmente Racalmuto) per lui è stato, e dunque resta oggi per i suoi lettori, un’isola dentro l’Isola.

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Sicilia terra di singolarità e separatezze

Dentro «quel grande, enigmatico contenitore di singolarità e separatezze che è la Sicilia» (così Giovanni Raboni, recensendo Occhio di capra nel 1984). Perciò nell’incessante esplorazione della sua terra (che fu anche autodiagnosi, confessione, amore e ripudio) Sciascia si mosse con una sua calcolata lentezza, rivoltandone le zolle con l’attenzione di un archeologo o di un chirurgo.

Stratificazioni di culture

Trovandovi con sguardo implacabile stratificazioni di culture, doppiezze di significati, angoli bui della lingua che paiono dire quel che non dicono, e intanto rivelano qualcosa d’altro. Memorabile figura di questa doppiezza è l’abate Giuseppe Vella, siciliano d’adozione, per vocazione falsario e per l’occasione arabista. Nelle pagine di Sciascia egli cammina con truffaldina eleganza su una lama di coltello messa a lucido dal gioco delle lingue: il maltese natío, il latino della liturgia, l’italiano e il siciliano delle trame politiche e della conversazione quotidiana, lo pseudo-arabo che s’inventa per il suo Consiglio d’Egitto, conquistando la prima cattedra di arabo all’Università di Palermo. Le parole e le lingue formano e coprono la menzogna, ma poi la mettono a nudo.

La terra su cui Sciascia camminava in Sicilia fu anche molteplicità di linguaggi, gioco di rispecchiamenti fra italiano e siciliano, cadenza di parole marginali o inevitabili che evocano metamorfosi, transustanziazioni di civiltà. Ne danno esempio le “parole doppie”, che in poche sillabe condensano transizioni epocali, secoli di storia, incontri e scontri di popoli. Così la parola Mongibello, nome alternativo dell’Etna. Già un vulcano con due nomi è un bel caso, ma Mongibello ne contiene in sé altre due, il latino mons e l’arabo gebel o simili, che vuol dire proprio ‘monte’. L’Etna è dunque un monte-monte, campione di tautologia: cioè del dire la stessa cosa due volte, quasi che una non bastasse. Ma dietro questa tautologia intravediamo un substrato plurisecolare: ad esempio, l’iscrizione trilingue dell’orologio ad acqua di Ruggero II a Palermo, dove ogni cosa vien detta tre volte in modo sempre diverso, anche la data: in latino è il 1142 dall’Incarnazione, in greco il 6650 dalla Creazione, in arabo il 536 dall’Egira. Davanti a questa epigrafe dobbiamo immaginare dunque siciliani del secolo XII sostanzialmente a loro agio mentre saltano da un registro linguistico all’altro.

A un passo dall’Etna, incontriamo il paese di Linguaglossa, cioè ‘lingua’ (in latino o italiano) e ancora ‘lingua’ (in greco, glossa). E poi le arti, le parentele, i mestieri. Per esempio capurráissi, che designava il capo di una barca o di una tonnara, ma anche un caporione o capopopolo: e qui capu è il latino caput e insieme l’italiano ‘capo’, più o meno esatto equivalente dell’arabo rais; dunque ‘capo-capo’. O ancora nannu-pappù e cioè nonno due volte, prima in versione latinoromanza e poi in una forma tarda di greco. A questo ventaglio di parole “doppie”, che i dialettologi avranno certo sciorinato e classificato, lo Sciascia di Occhio di capra ne aggiunge di suo uno e v’imbastisce giocosamente un raccontino.

Siamo a Racalmuto, e la parola doppia è cani piriddru , e cioè cane due volte, prima in latino o siciliano e poi in spagnolo (perrito). E Raboni commenta: «come se scaturisse dal nulla, dal nero del passato il fugace, delizioso personaggio d’una signora spagnola la quale, capitata chissà come a Racalmuto, si sia rivolta al suo cagnolino col vezzeggiativo perrito». Una parola dovrebbe bastare, ma due sono meglio di una, combinandosi formano una verità superiore o più intensa.

Doppiezza delle parole

Questa doppiezza delle parole, che si sostengono e si riaffermano facendosi eco l’una con l’altra con straniante ridondanza, pare l’eco di una voce che ripeta all’altoparlante un nome in un aeroporto o in una stazione, per farsi sentir meglio. O forse è come nella Macondo di García Márquez, su cui incombe la nuvola di un oblio imminente, e per ricordarsi il nome d’ogni cosa si «segna tutto con il suo nome: tavolo, sedia, orologio, porta, muro, letto, casseruola; ma anche vacca, capra, porco, gallina, manioca, malango, banano». Contro la dimenticanza, due ricette: appendere alle cose, agli animali, alle piante il loro nome (come a Macondo), o chiamarle due volte, fors’anche in due lingue, per inchiodarle alla mente.

Anche questo ci dice la Sicilia di Sciascia, e dunque anche l’Italia di cui è condensazione e dolorosa metafora: poggiamo i piedi su una terra sempre più smemorata di sé, eppure l’anatomia delle parole sa ancora restituirci la stratificazione dei linguaggi, la memoria delle invasioni, le mescolanze di culture. Frotte di petulanti Abati Vella circolano intorno a noi, millantando conoscenze che non hanno. Ma è proprio per questo che dobbiamo tornare alla terra, alla terra umana delle parole e della lingua, per riconoscere (per ricordare) quel che noi stessi siamo.

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