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Un racconto sulla Befana e sulle radici

di Giuseppe Lupo

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(massimo_g - stock.adobe.com)

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6 gennaio 2022
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3' di lettura

Una delle prime delusioni della mia vita è stato quando mio padre mi ha portato a conoscere la Befana. Premetto che fino ad allora il mattino di oggi era il più atteso tra i giorni di feste natalizie. Avevo la fortuna di dormire in una stan-za dove la Befana lasciava i suoi doni su un tavolo ovale e a me bastava compiere la più semplificata delle azioni – aprire gli occhi – per vedere il grattacielo di pacchi e pacchetti lasciati sul tavolo da questa donna che i miei ge-nitori mi descrivevano fin nei minimi dettagli – quanto era alta, quanto era vecchia, come’era vestita – e a volta rife-rivano anche di averle incontrata e le parole che lei aveva mandato a dire a me. L’unica contrarietà è che i doni arri-vavano il giorno prima del ritorno a scuola, il fatidico 7 gennaio, per cui era un controsenso rincorrere la lunga at-tesa di questo giorno da prima di Natale per poi vedere sva-nire il tempo delle feste in un attimo. Ma questo era nei patti della geografia a cui appartenevo.

Fossi nato a Berga-mo o Brescia o a Siracusa, avrei ricevuto gli stessi doni il giorno di Santa Lucia. O il giorno di Natale, se fossi nato come mia cugina a Milano, dov’era il Bambino Gesù a nascere con i regali. Ma venivo dall’Appennino meridionale e dunque dovevo aspettare. Io credevo nella storia della Befana e la notte mi imponevo di chiudere gli occhi, anche se sapevo che lei sarebbe dovuta venire nella stanza dove dormivo, era lì che lasciava i pacchi. Se avessi avuto la furbizia di stare on gli occhi, fingendo di dormire, avrei scoperto se davvero si vestiva come me la descrivevano i miei genitori. Quando giocavo in strada, gli amici mi avevano lanciato l’avverti-mento: «Guarda che non esiste. Guarda che sono i papà e le mamme». Ma io continuavo a non credere: esiste veramente, non può essere nessun altro che lei. Questi discorsi misero in allarme i miei genitori che volevano evitare di farmi fa-re brutte figure con i miei compagni e un giorno decisero che era tempo di farmela incontrare. Credo fosse nell’anno in cui frequentavo la terza elementare. Fu mio padre a dir-melo: «Oggi pomeriggio ti porto a conoscere la Befana». Mi fece salire in auto e mi portò nella piazza di un paese che distava appena cinque chilometri rispetto a quello dove abi-tavo io. C’era un po’ di foschia che dava al pomeriggio una sensazione di mistero e confondeva le sagome delle donne, ricoperte di scialli neri (quella era ancora una Lucania in cui alcune donne portavano gli scialli e non i cappotti), che si avvicinavano come ladre alla fila di bancarelle su cui vedevo nocelle, castagne, carrube, ceci tostati, torro-ni. Su altre bancarelle erano sistemati pupazzi di plastica, carabine, pistole, cinturoni western, tamburi, trombette, cerchi. Mio padre indicò le donne con gli scialli neri. «Questa è la Befana» mi disse. Io guardai nella direzione che indicava la sua mano e poi guardai lui: mi stai prenden-do in giro, avrei voluto dirgli. Non era questo che mi ave-vano raccontato, non era fatto così il mondo in cui gli adulti mi avevano convinto fosse vero. Rimaneva un barlume di speranza e in ultimo guizzo ha avuto il coraggio di chie-dere: «Quale di queste è la Befana?» Continuavo a non vo-lermi convincere di quel che vedevo. Conservavo la speranza che almeno una di quelle donne con gli scialli neri fosse lei, la presenza invisibile, capace di entrare, per tutti quegli anni, senza farsi accorgere, nella stanza dove io dormivo. Mio padre non rispose. Il suo silenzio significò tutto e niente, ma era un silenzio che lasciava me e il mon-do che mi stava intorno avvolto nel lenzuolo indecifrabile di ciò che si chiama mistero. Fece il suo dovere di padre, mi disse chi era la Befana e per me fu come chiudere una della prima finestre spalancate sul continente dell’incanto. La chiamo delusione, ma è solo per farmi capire. Eppure, no-nostante tutto, mi rimane il dubbio che qualcosa mi sia sfuggito nel pomeriggio di quel giorno, quando le donne con gli scialli neri si accostavano alle bancarelle e poi si al-lontanavano nella foschia.

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