di Roberto Galullo
(ANSA)
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In una situazione in cui cercare punti fermi equivale a scovare l'ago in un pagliaio, l'unica certezza è che il boss di Cosa nostra Giuseppe Graviano – che tra febbraio 2016 e aprile 2017 si è lasciato andare a confidenze con il compagno di carcere ad Ascoli Umberto Adinolfi sui suoi rapporti stretti con Silvio Berlusconi – sapeva di essere intercettato. Tutto quello che le microspie fatte piazzare dalla Procura di Palermo hanno registrato e che sono uscite dalla sua bocca – trascritte e depositate in migliaia di pagine al processo sulla trattativa Stato-mafia – sono ad uso e consumo di una lunghissima partita a scacchi che Cosa nostra sta giocando da decenni con lo Stato.
La prossima mossa sarà (forse) quella in cui proprio Graviano sarà chiamato a deporre nel processo sulla trattativa, chiamato ancora una volta a dire la sua verità dal pm Nino Di Matteo che tra qualche giorno volerà in Direzione nazionale antimafia ma da lì continuerà a seguire il procedimento.
Il 28 marzo 2017 i pm di Palermo sono andati infatti nel carcere di Ascoli Piceno per interrogare Graviano, a cui ora viene contestato il reato di minaccia a Corpo politico dello Stato in concorso con altri boss, ma lui ha risposto così: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere a causa delle mie condizioni di salute che oggi non mi consentono di poter sostenere un interrogatorio così importante ed anche a causa del mio stato psicologico derivante dalle condizioni carcerarie che mi trovo costretto a vivere... quando sarò in condizioni sarò io stesso a cercarvi e a chiarire alcune cose che mi avete detto» .
Una foto segnaletica, senza data, del boss mafioso Filippo Graviano. ANSA / FRANCO LANNINO
La vicenda Graviano ricorda dunque – e non è detto che non sia strettamente connessa – in tutto e per tutto (condizioni precarie di salute comprese) quella di Totò Riina che venne intercettato nel 2013 in amichevoli e lunghe chiacchierate con Alberto Lorusso, al quale confidò, tra le altre cose, progetti di attentati proprio contro Di Matteo. Possibile che un uomo scaltro e attento come Riina, abituato dalla nascita e da un codice genetico mafioso a vedere “sbirri” e “orecchie” dappertutto non sapesse che le cimici e le microcamere stavano registrando e immortalando ogni respiro e battito di ciglia? Impossibile, così come lo è per Graviano, che ha respirato la stessa aria e ha tatuato nell'anima lo stesso codice di comportamento.
Ora quelle dichiarazioni forti, fortissime – «Berlusca mi ha chiesto questa cortesia... per questo c'è stata l'urgenza. Lui voleva scendere... però in quel periodo c'erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa» oppure ancora «Berlusconi quando ha iniziato negli anni '70 ha iniziato con i piedi giusti, mettiamoci la fortuna che si è ritrovato ad essere quello che è. Quando lui si è ritrovato un partito così nel '94 si è ubriacato e ha detto “Non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato”. Pigliò le distanze e ha fatto il traditore» – dovranno passare al vaglio di un'aula di Tribunale.
Non è però la prima volta che il presunto legame tra la famiglia Graviano e Berlusconi sale agli onori della cronaca, dopo essere approdata ancora una volta in un'aula di Tribunale.
Riavvolgiamo il nastro. Quattro dicembre 2009. Depone Gaspare Spatuzza, altro calibro da 90 di Cosa nostra. «Nel '94 incontrai Giuseppe Graviano in un bar in Via Veneto, aveva un atteggiamento gioioso, ci siamo seduti e disse che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo grazie alla serietà delle persone che avevano portato avanti quella storia e non come quei quattro “crasti” socialisti che avevano preso i voti nel 1988 e 1989 e poi ci avevano fatto la guerra. Mi vennero fatti due nomi tra cui quello di Berlusconi. Io chiesi se era quello di Canale 5 e mi disse: sì. C'era pure un altro nostro paesano. Graviano disse che grazie alla serietà di queste persone ci avevano messo il paese nelle mani».
Successivamente Spatuzza si trovò nel carcere di Tolmezzo con Filippo Graviano: «Nel 2004 lui stava malissimo, io gli parlavo dei nostri figli, di non fargli fare la nostra fine... ho avuto la sensazione che stava crollando. Mi disse di far sapere a suo fratello Giuseppe che se non arrivava qualcosa da dove doveva arrivare, allora bisognava parlare ai magistrati». Il pm chiede spiegazioni sulla frase «da dove doveva arrivare» e qui Spatuzza ritorna al riferimento di Berlusconi e Dell'Utri. «I timori di parlare del presidente del Consiglio erano e sono tanti - continua Spatuzza. - Basta vedere che quando ho cominciato a rendere i colloqui investigativi con i pm mi trovavo Berlusconi primo ministro e come ministro della Giustizia uno che consideravo un 'vice' del primo ministro e di Marcello Dell'Utri».
Il 14 marzo 2014 Spatuzza depose nuovamente e spiegò che aveva deciso di parlare delle confidenze di Graviano solo dopo avere appreso che le Procure di Palermo e Caltanissetta avevano dato parere favorevole alla sua ammissione al programma di protezione. Già nel 1998 Spatuzza aveva avuto colloqui investigativi con l'allora procuratore nazionale antimafia Piero Luigi Vigna ma che anche allora nulla aveva detto del colloquio con Graviano. «Allora – ha risposto Spatuzza – la mia non era una collaborazione. Avevo solo mostrato disponibilità perché dentro di me mi ero ravveduto. Ma solo nel 2008, dopo un lungo percorso personale, ho deciso di pentirmi».
Ora la nuova tappa processuale, con Graviano ancora di fronte a pm e giudici, potrebbe portate qualche elemento di conoscenza in più anche se non servirà per ora a districare una trama sottilissima nella quale ciascun filo è apparentemente scollegato dall'altro. Negli ultimi anni, infatti, abbiamo assistito non solo alle passeggiate “cifrate” e ancora tutte da decriptare di Riina e ora Graviano, ma anche depistaggi continui, falsi pentiti ma, soprattutto, messaggi cifrati da lui, Totò Riina, ancora il capo dei api di Cosa nostra. Il riferimento non è solo alle richieste continue di avere un differimento della pena o gli arresti domiciliari ma anche alla presenza fissa nel processo sulla trattativa durante il quale una sola volta promise di intervenire e rispondere alle domande, salvo poi ripensarci e ricominciare con i tatticismi esasperati che devono giungere non solo al suo mondo di riferimento.
Non resta che registrare infine le dichiarazioni di Nicolò Ghedini, legale di Berlusconi. «Dalle intercettazioni ambientali di Giuseppe Graviano, depositate dalla Procura di Palermo, composte da migliaia di pagine, corrispondenti a centinaia di ore di captazioni, vengono enucleate poche parole decontestualizzate che si riferirebbero asseritamente a Berlusconi. Tale interpretazione è destituita di ogni fondamento non avendo mai avuto alcun contatto il Presidente Berlusconi né diretto né indiretto con il signor Graviano. Ogni illazione in proposito troverà adeguata risposta nelle sedi competenti. Che, del resto, il Presidente Berlusconi sia totalmente estraneo a fatti consimili è stato già ampiamente dimostrato in più sedi giudiziarie».
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Roberto Galullo
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