di Angelo Flaccavento
(ANSA)
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Dopo mesi di mormorii, l’annuncio ufficiale: le strade di Alessandro Michele e Gucci si separano. Aspettative di crescita disattese? Stanchezza creativa? Fisiologico calo di interesse da parte del pubblico? Non è dato sapere, pur considerando quanto il tema del profitto massimo sia limitante per chi crea, oggi che il sistema è governato da logiche spietatamente mercantili. Con i numeri non si scherza, anche quando le flessioni sono nell’ordine delle unità.
Come che sia, questa uscita tra l’atteso e il fulmine a ciel sereno non intacca il valore di quanto Michele in sette anni ha fatto per il marchio ammiraglio del gruppo Kering, portandolo a fatturati stellari e riposizionandolo in modo radicale nell'immaginario collettivo. Michele è stato di certo piú un assemblatore che un creatore, un collagista di riferimenti più che un inventore ex novo, ma proprio questo modo nostalgico e insieme propulsivo di procedere lo ha reso una espressione cogente dei tempi, dei quali ha catturato le urgenze escapiste come il bisogno di riscrivere i codici del maschile e del femminile.
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È stato un teatrino affascinante, e assai coinvolgente, che ha prodotto una galleria di caratteri di tutto rispetto, e nuovi modi di commerciare i vestiti, ma lo zeigeist è implacabile: scivola e si evolve e quel che era nuovo e desiderabile diventa già visto in men che non si dica.
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Michele, e questo è detto senza connotazioni negative, appartiene alla schiera degli autori monotematici, ossia tesi a scavare all’infinito la stessa idea. Il Moloch della moda di oggi richiede cambiamento costante per un pubblico vorace e distratto. Sette anni sono un periodo lungo, in ogni caso: il segno resta. È la fine di un’era, ma la moda digerisce e dimentica tutto, soprattutto i sogni dei suoi autori più amati.
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