di don Luca Peyron *
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Con 377 voti a favore, 248 contrari e 62 astenuti il Parlamento Europeo ha deciso di proibire l’uso di sistemi di riconoscimento facciale nei luoghi pubblici da parte delle forze di Polizia ritenendo che tali pratiche violino i diritti della persona. In parallelo nel contesto dell’approvazione del decreto Capienze sono state apportate delle rilevanti modifiche al codice della privacy, con una manifesta incompatibilità con il Regolamento europeo. In particolare il giurista nota la significativa abrogazione del comma 5 dell'art. 132 del Codice Privacy, in merito alle misure e accorgimenti prescritti dall’Autorità Garante circa il trattamento e conservazione dei dati e metadati telefonici per finalità di accertamento e repressione dei reati.
La mens del Legislatore è quella di “semplificare” le attività delle PA nell’adempimento di un compito nell’interesse pubblico, tuttavia aprendo un vulnus che giustifica pratiche delle forze dell’ordine in contrasto con la normativa sulla privacy e le molte pronunce della Corte di Giustizia sul punto. In definitiva la politica, nazionale ed europea, si dimostra ancora troppo poco conscia di che cosa significhi condizione digitale e quale sia la portata di interventi che non possono essere sporadici, non coesi e, soprattutto ancora in bilico tra via europea e percorsi nazionali.
In particolare, la via europea all’intelligenza artificiale (Ai) ha ancora bisogno di molto dibattito e dialogo sui fondamenti per dirsi sicura e spedita quando invece ne abbiamo particolarmente bisogno. A fronte di queste considerazioni di cornice vi è un settore, non particolarmente conosciuto e che raramente approda alle cronache in cui, forse più ancora che sulle piazze pubbliche, l’Ai mette in gioco la vita delle persone, letteralmente. Si stanno sviluppando infatti in modo significativo le più diverse applicazioni di intelligenza artificiale per la selezione del personale che non si limitano ad analizzare dei dati come i curricula delle persone, ma interfacciano con esse in modo proattivo.
Sul mercato esistono diverse applicazioni che spaziano su tre ambiti: i chatbot come ultimo stadio dei sistemi di rilevazione psicometrica; i sistemi di analisi facciale e della voce per la rilevazione del “carattere” ed infine le applicazioni legate al tema del gioco. In questa sede vorrei approfondirne i caratteri sotto il profilo antronomico, ossia quel profilo legato all’antronomia, la metascienza con cui vorremmo contribuire al dibattito ed allo sforzo da più parti condiviso di mettere l’umano al centro.
Nell’uso di tecnologie applicate alla selezione del personale viene ripetutamente sottolineato che hanno lo scopo di eliminare il lavoro sporco, di routine, lasciando all’umano quello che più propriamente dovrebbe competergli. Ma non solo: per molti la macchina non ha pregiudizi o perlomeno quelli che ha sono quantificabili molto di più e meglio di quanto questo possa avvenire con una persona, che i pregiudizi li può avere, ma non manifestare apertamente o avere senza saperlo poiché inconsci.
Un quadro legislativo c’è, in particolare rileva l’art. 22 del Regolamento europeo sulla protezione dei dati 2016/679 che dispone che «l’interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona». Il dibattito è in corso, con posizioni interessanti sui diversi fronti. Ma quanto vorrei qui porre all'attenzione del lettore è in parte diverso.
Cominciamo dal gioco. Tra le applicazioni più utilizzate e considerate promettenti vi sono quelle come Pimetria o Scoutible che fanno giocare i candidati con un videogioco ed a seconda del loro comportamento nello spazio virtuale valutano la loro attitudine e capacità. Il gioco, soprattutto in età adulta, è un modo di essere se stessi, per allentare la tensione, per vivere la socialità, per divertirsi nel modo più semplice e lineare di questa espressione. Il gioco è un diritto umano, per i piccoli ma in qualche misura, anche per i grandi, perché è una attività gratuita che ci umanizza. Come una risata.
Che cosa accade se l’attitudine a giocare comincia ad essere un metro di giudizio costante in un settore decisivo come quello del lavoro? Se le forme di evasione sane, di espressione del sé, diventano uno degli ennesimi indicatori di performance? Il gioco utilizzato per team building e per il problem solving sono una differente applicazione di questo ambito, ma il gioco come vetrina delle capacità o buco della serratura tecnologico per l’analisi delle attitudini ha profili molto differenti. I diritti umani consistono prima di tutto nel diritto ad essere umani ed il gioco ne è una componente importante.
Donald Winnicott ci ha insegnato che il gioco si colloca in un’area definita transizionale, ossia, “un’area d’esperienza sospesa tra la realtà e la fantasia, tra soggettivo e oggettivo” e che esso è “universale e appartiene alla sanità, il gioco porta alle relazioni di gruppo […] il gioco facilita la crescita […] mentre gioca, e forse soltanto mentre gioca, il bambino o l’adulto è libero di essere creativo”. Insomma, il gioco non ci mantiene bambini nel senso deteriore, ma nel senso migliore, aperti alla vita, alla speranza, al poter essere noi stessi.
Nel gioco vengono meno i rapporti di potere e di potenza perché l’adesione comune alle regole permette di essere allo stesso piano, unici e nello stesso tempo identici. Laddove il gioco diventa un ennesimo strumento di potere e di dominio, di controllo, che cosa stiamo mandando in briciole? Con quali irreversibilità? Nella Scrittura Gesù ha parole durissime per chi scandalizza un bambino e nello stesso tempo invita a mantenere il proprio cuore come quello di un bambino, aperto all’altro.
La ragione teologica di questo interesse profondo la possiamo ricondurre in buona parte proprio negli aspetti legati all’infanzia come momento fontale del nostro esistere, che permane nelle fasi successive della vita come spinta verso l’oltre, verso l’altro e, nella dimensione teologica, nel riconoscimento dell’essere figli e dunque custoditi e generati. Recidere questo legame fontale con noi stessi, vale effettivamente il risultato sperato? La posta in gioco è alta, letteralmente.
* Teologo Università Cattolica
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