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Lavoro, i costi di cura dell’infanzia spingono le donne alle dimissioni

di Maria Paola Mosca

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Spese elevate per le famiglie non solo in Italia, ma da noi mancano le misure messe in atto in altri Paesi per supportare l’occupazione femminile.

7 marzo 2023
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4' di lettura

Il costo della cura dell'infanzia sta spingendo numeri impressionanti di donne fuori dal mercato del lavoro. Pesantemente colpite dall'impatto della crisi pandemica - globalmente rappresentavano il 39% della forza lavoro pre-Covid ma il 54% di chi ha rimasto disoccupato - le lavoratrici continuano a soffrire diversi livelli di discriminazione lungo la loro carriera e specialmente quando diventano madri. Che mantengano o meno un'occupazione, vengono poi schiacciate da spese di cura insostenibili.

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Nel Regno Unito, uno dei Paesi OCSE con i servizi per l'infanzia più cari, la sola spesa di accudimento per bambino sotto i due anni arriva a costare mediamente 14mila sterline l'anno (quasi 16mila euro). Con picchi in alcune zone di Londra di oltre 42mila sterline.

Davanti a questi numeri, non sorprende troppo che lo scorso anno fossero circa un milione le inglesi tra i 25 e i 49 anni non occupate perché impegnate a stare coi propri figli e 1,7 milioni quelle costrette a lavorare meno ore non potendosi permettere le rette. Da una parte, le spese per le famiglie e le madri single, sono diventati insostenibili e, dall'altra, mancano le strutture di cura.

Sempre più istituti infatti sono costretti a chiudere a causa dei continui e rapidi aumenti dei costi. Ma anche per una sempre più profonda carenza di personale, rappresentato - ça va sans dire - per il 96% da donne. Con redditi a mala pena da salario minimo e spesso al limite del burnout, molte professioniste certificate preferiscono riversarsi su lavori meno qualificati, facendo le assistenti nei negozi o lavorando per catene di fast food, invece che continuare nel settore in cui si sono specializzate.

In generale, il Regno Unito potrebbe ritrovarsi a breve con uno dei peggiori tassi di partecipazione, soprattutto femminile, della forza lavoro degli ultimi 30 anni, al punto che, secondo alcuni, entro un decennio le questioni legate all'occupazione potrebbero risultare più preoccupanti dell'inflazione, della crisi delle catene di approvvigionamento o dei costi di materie prime e produzione. Per trovare e trattenere i profili giusti molte aziende puntano già sull'offerta di benefit proprio per la cura dei bambini.

Una tendenza questa che, guardata in una prospettiva di genere, potrebbe avviare una spirale positiva in cui il talento femminile, spesso sottoutilizzato, diventa un bacino importante da cui attingere. Ma le imprese da sole possono fino a un certo punto. E, intanto, con l'avvicinarsi della data di presentazione dello spring budget di metà marzo, sull'isola la questione riguardo alle spese per l'infanzia e occupazione femminile si è accesa.

La richiesta è condivisa: stanziare più investimenti. Come ricorda la recente pubblicazione “Essays on Equality. The politics of Childcare” del Global Institute for Women's Leadership-King's College di Londra, la quota di spesa pubblica inglese rappresenta solo lo 0.6% di PIL, la più bassa tra economie simili analizzate. Non sufficiente per garantire un sistema di qualità per la cura dei bambini sotto i 3 anni.

I costi in Italia

Anche in Italia costi delle cure per l'infanzia e poca disponibilità di posti, costringono, soprattutto le madri a lasciare il lavoro. Stando agli ultimi dati disponibili dell'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl), sono state circa 38mila nel 2021 le donne che si sono dimesse (il 71% del totale). La maggioranza di queste hanno tra i 29 e i 44 anni. Considerando che l'età media in cui le italiane hanno il primo figlio è 33,1 anni, è facile capire che restano l'anello debole della catena.

Lo segnala anche il rapporto dell'Inl, proprio la cura dei bambini è tra le motivazioni che portano le donne a dimettersi volontariamente. Causa pandemia prima e inflazione e aumenti generali, i rincari son stati rapidi. Gli asili comunali hanno visto un aumento costante per iscrizione, retta e mense. A Milano per esempio, la spesa mensile per una famiglia con Isee che supera di poco i 30mila euro annuali è passata da 465 a 502,2 euro. Tendenza al rialzo anche nelle strutture private convenzionate: secondo Altroconsumo, il costo medio nelle città può arrivare a 620 euro, con previsione di nuovi aumenti a breve.

Aiuta, ma fino a un certo punto, il bonus nido 2023, che da qualche giorno i genitori con figli piccoli possono richiedere – con un massimo erogato di 272,73 € al mese (per 11 mesi) per Isee inferiore ai 25mila euro. Oltre ai costi sempre più alti, infatti, in tutto il Paese resiste un tema di posti.

È lontano il target previsto dalla raccomandazione europea, aggiornata in dicembre, che prevede il raggiungimento del 45% di posti disponibili nelle strutture per l'infanzia per bambini sotto i 3 anni. Anche nonostante gli interventi specifici previsti dal Pnrr, l'Italia rimane 6 punti percentuali sotto il limite minimo precedente, originariamente stabilito per il 2010. Le prime a pagare le conseguenze, sono le mamme di figli piccoli che dichiarano di non poter lavorare a causa proprio dell'assenza di servizi di cura.

Quali sono le soluzioni trovate all’estero?

Tornando alla Gran Bretagna, le donne inglesi continuano a venire pagate mediamente il 15% meno degli uomini secondo le analisi su dati del Trade Union Congress. Pay gap che aumenta drammaticamente appena diventano madri.

Con un costo della vita crescente, l'evidente peggioramento delle condizioni generali, con sempre più famiglie costrette a scegliere tra lavoro e genitorialità e molte madri che vorrebbero lavorare più ore ma non possono perché restano le prime responsabili della cura dei figli, le riforme per l'assistenza all'infanzia sono urgenti. E possono avere ripercussioni positive. A partire dal fatto che, sostengono i ricercatori del King's College, sistemi di cura più economici aumentano la partecipazione femminile al mercato del lavoro.

Qualche esempio? Il Canada e la Nuova Zelanda dove sono stati implementati schemi di sussidi pagati direttamente alle strutture, senza che le famiglie debbano anticipare i costi delle rette e poi essere rimborsati. L'Australia dove il governo, che già a maggio 2022 si era impegnato a un investimento di 5,4 miliardi di dollari per aiutare nelle spese di cura infantile, ha dato priorità all'estensione dei congedi parentali da 18 a 26 settimane entro il 2026. Il Giappone che per incentivare la natalità, ha introdotto dal 2019 l'assistenza per l'infanzia gratuita dai 3 ai 5 anni. O ancora, i Paesi Bassi dove già esistono sussidi per i genitori lavoratori di bambini sotto i 4 anni, e dove in settembre il governo ha presentato un piano che porterebbe gradualmente il rimborso al 96% dal 2025.

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