di Pier Cesare Rivoltella*
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È indubbio che l’emergenza attraversata in questi mesi abbia rappresentato un acceleratore del cambiamento (anche se non necessariamente dell’innovazione) nelle pratiche didattiche di scuole e università. Infatti, quella che finora aveva rappresentato solo un’opzione per i docenti ha assunto il carattere di una necessità, producendo l’immersione di tutti in uno scenario popolato dagli schermi, dai sistemi di videocomunicazione, dal problema di come risultare efficaci anche a distanza. In questo processo si possono verosimilmente distinguere tre fasi: una già alle spalle, una in corso, l’ultima ancora da immaginare.
La prima fase è quella dell’emergency remote teaching. Coincisa con il lockdown, questa fase è stata caratterizzata da soluzioni molto diversificate. Dove pre-esisteva una tradizione di innovazione (penso alle scuole a forte orientamento tecnologico, o alle università che già avevano esperienze di e-learning e una vocazione al faculty development) si è assistito a una buona capacità di far fronte alla crisi, in alcuni casi anche con risultati di grande efficacia. Dove invece – ed è la situazione più frequente – questa tradizione non esisteva, l’urgenza ha consigliato soluzioni estemporanee spesso consistenti nel “travasare” le didattiche d’aula tradizionali nei formati tecnologici. Gli errori più comuni: mantenere i tempi della presenza anche a distanza; sottovalutare i pro- blemi dell’attenzione, a distanza assolutamente più discontinua; non considerare l’impatto del carico cognitivo, in overload quando si lavora a distanza; non considerare l’incidenza della distanza sul processo di valutazione. Il sistema, bene o male, ha tenuto grazie all’impegno dei più, alla resilienza degli studenti, al concorso di altri attori, dalle famiglie all’informale sociale.
La seconda fase è quella che ancora stiamo attraversando, improntata a una emergency blended solution. Si è sempre in emergenza, anche se con un differente livello di gravità, ma all’insegnamento in remoto “forzato” si è sostituita una più avveduta progettazione della didattica, capace di considerare, in modo flessibile in relazione all’andamento del contagio, diversi scenari: la didattica a distanza, la didattica integrata (parte in presenza, parte a distanza), il rientro in aula e insieme la possibilità di fruizione in remoto (la cosiddetta soluzione dual mode). In questa fase si sono imparate alcune lezioni e le si è messe a profitto.
Anzitutto si è compreso il valore della progettazione. Quando si lavora a distanza, o con soluzioni blended, è molto difficile improvvisare. Occorre una pianificazione scrupolosa delle azioni, una preparazione puntuale dei materiali, una previsione attenta del processo di insegnamento. Tutti comportamenti che non appartengono a una tradizione didattica come la nostra, sia all’università che a scuola.
In secondo luogo si è calcolato meglio l’impatto dell’attività didattica sincrona, il cui rapporto con la didattica in presenza non è di 1:1. Non si può “trasmettere” a distanza la lezione in presenza. Il momento sincrono serve per brevi framework concettuali, per la soluzione dei problemi, per la discussione dei casi. L’accesso degli studenti all’informazione dev’essere collocato in altro momento e possibilmente anticipato rispetto alla lezione (come accade nelle diverse forme di flipped learning, o nell’“apprendimento situato”).
Si è anche compreso che la valutazione richiede soluzioni diverse, perché le prove tradizionali, se svolte online, generano molte criticità (come gli episodi di studenti bendati durante le interrogazioni o il ricorso a sistemi informatici anti-copiatura hanno dimostrato). Molto meglio optare per forme di alternative assessment: project work, compiti di performance, attività di piccolo gruppo, piccoli test just-in-time (grazie alla disponibilità di applicativi come Mentimeter, Slido o Kahoot).
Infine, si è realizzato che la mediazione degli schermi è faticosa da sostenere. C’è chi ne ha preso spunto per tratteggiare addirittura il profilo di una nuova sindrome, la zoom fatigue, caratterizzata dalla stanchezza prodotta da un corpo immobile, davanti allo schermo per ore, sostenendo lo sguardo ravvicinato degli altri e controllando continuamente la propria prestazione, la propria presenza, il proprio livello di concentrazione. Si è così cominciato a capire che la sostenibilità di tutto questo rappresenta un problema, non solo per il docente, ma anche per gli studenti.
Ora stiamo per entrare (lo speriamo davvero) nella terza fase. La sensazione è che si sia di fronte, in questo caso, a due scenari alternativi. Il primo è quello del back to face-to-face, ovvero di un ritorno alla didattica in presenza tradizionale. Possono spingere in questa direzione il rifiuto istintivo dell’online, vissuto per oltre un anno come orizzonte obbligato del proprio agire, ma anche il recupero di tutto ciò che online non si può fare: l’uso del corpo, la prossemica, la comunicazione gestuale, la didattica esperienziale. Credo che se fosse questa la prospettiva a prevalere, si getterebbe una grande occasione per mettere a sistema quanto appreso in questi mesi. Per questo l’opzione che auspico si materializzi è il secondo scenario, quello che potremmo definire onlife technology teaching. L’ipotesi è una scuola e un’università in cui la tecnologia rappresenti una dimensione normale della pratica didattica (di qui il richiamo all’idea dell’onlife proposta da Luciano Floridi) e che lavori su almeno due snodi decisivi ai fini dell’innovazione di sistema, proprio a partire dalla lezione dell’emergenza.
Il primo snodo è legato al tempo. Non si può più misurarlo solo sulla base della didattica erogata, delle ore di lezione impartite. Il tempo dell’apprendimento è più articolato, come quello dell’insegnamento. Occorre andare nella direzione di una considerazione complessiva e più equilibrata che tenga conto dei diversi aspetti. Questo nel caso della scuola dovrà poter consentire di mettere in discussione il tempo-scuola, disarticolando finalmente la relazione indissolubile tra ora di lezione, insegnante e disciplina.
Il secondo snodo è legato allo spazio. Perché non pensare a soluzioni blended come a soluzioni normali da poter adottare? Si tratterebbe di immaginare alcuni giorni della settimana di frequenza in presenza e altri di didattica a distanza. In questo modo non si perderebbero alcuni indubbi vantaggi della distanza: la possibilità di registrare e rendere disponibili le lezioni; la facilità di ospitare testimonial e guest lecturer senza che si muovano dalle loro sedi, con grande economia di tempo e di costi; la compatibilità con l’attività degli studenti-lavoratori. La disponibilità di aule opportunamente attrezzate consentirebbe di integrare perfettamente le diverse situazioni, garantendo nella progettazione la giusta flessibilità: le soluzioni per l’università saranno differenti da quelle per la scuola, e in quest’ultimo caso sarà diverso pensare a scuola dell’infanzia e primaria, o alla secondaria.
Non serve molto: solo il coraggio di pensare oltre gli standard e di vincere la tentazione di ripristinare lo status quo. Saluteremo così una stagione di grande sperimentazione, miglior viatico per un futuro di cui non aver paura.
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