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Oro, boom di riserve per le banche centrali ma molti sono acquisti fantasma

di Sissi Bellomo

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(AK-DigiArt - stock.adobe.com)

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Nel terzo trimestre riserve auree aumentate di quasi 400 tonnellate, il 2022 è già anno record dal 1967. Ma di tre quarti dei lingotti si sono perse le tracce: sono “scomparsi” nei forzieri di Paesi che non hanno comunicato l’acquisto. I sospetti cadono su Russia e Cina

3 novembre 2022
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3' di lettura

È partito l’assalto all’oro da parte delle banche centrali, con un accumulo di riserve auree che l’estate scorsa è avvenuto a ritmi senza precedenti: tra luglio e settembre c’è stato un incremento di ben 399 tonnellate, una quantità addirittura più che quadrupla rispetto allo stesso periodo del 2022. Il boom ha portato gli acquisti netti del settore a 673 tonnellate nei primi nove mesi del 2022: volumi che battono ogni record (annuale) dal 1967, quando il dollaro era ancora convertibile in oro.

Ma l’aspetto più rilevante che emerge dall’ultimo rapporto del World Gold Council (Wgc) è probabilmente il fatto che nel terzo trimestre si sono perse le tracce di oltre 300 tonnellate di lingotti. La banca centrale acquirente, come fa notare Ing, è nota per appena 90 tonnellate (spiccano i volumi di Turchia, Uzbekistan, India e Qatar), ma per tutto il resto è buio assoluto: non si sa che fine abbia fatto.

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Non si tratta di pochi lingotti, persi per un errore statistico, ma di una vera e propria montagna d’oro, “scomparsa” nei forzieri di Paesi che non hanno comunicato alcuna variazione delle riserve. Forse lo faranno in ritardo,come talvolta succede. O magari non lo faranno mai. E anche questo può succedere, soprattutto se ci sono di mezzo guerre e sanzioni.

Il sospettato numero uno per gli acquisti fantasma è infatti la Russia, anche se ci sono forti indizi anche a carico della Cina, che non brilla per trasparenza e che in passato ha diffuso in modo intermittente le informazioni sulle riserve auree e più in generale su tutto ciò che riguarda il mercato aurifero.

La banca centrale russa a fine febbraio – pochi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina – aveva segnalato chiaramente l’intenzione di riprendere gli acquisti di oro, che aveva interrotto nell’aprile 2020 dopo aver raddoppiato le riserve auree nel giro di cinque anni (a circa 2.300 tonnellate, un quinto del totale delle riserve).

Da Mosca non sono più arrivati aggiornamenti in proposito, ma è molto probabile che un accumulo di lingotti ci sia stato, agevolato dalla possibilità di acquisti dai produttori locali, che oggi sono in gran parte tagliati fuori dai mercati internazionali.

Sanzioni a parte, la London Bullion Market Association il 7 marzo ha privato i lingotti forgiati da raffinerie russe del marchio Good Delivery (sia pure salvaguardando i lingotti messi in circolazione prima di quella data) e anche nei magazzini del Comex l’oro russo non è più consegnabile a fronte della scadenza di futures.

Quanto alla Cina, da mesi si osserva un boom di importazioni di oro dalla Svizzera, il maggiore hub di raffinazione al mondo per i metalli preziosi: acquisti tanto rilevanti da aver sollevato in molti analisti il sospetto di un accumulo silenzioso di riserve auree.

Dalle statistiche doganali elvetiche risulta che a luglio Pechino aveva importato dalla Confederazione 80,1 tonnellate di lingotti, il massimo da dicembre 2016. Nei due mesi successivi i volumi sono stati un po’ più bassi, ma comunque all’incirca doppi rispetto all’anno scorso: 37,8 tonnellate ad agosto e 44 a settembre.

Fatti i conti sono 161,9 tonnellate importate in un solo trimestre (e solo dalla Svizzera), in un Paese che di oro è addirittura il maggior produttore al mondo, con 370 tonnellate estratte in miniera nel 2021.

All’origine dell’accumulo di riserve auree, che da solo ha costituito un terzo della domanda di oro fisico nel trimestre luglio-settembre, potrebbe essere una nuova spinta verso la dedollarizzazione, nel caso della Cina stimolata dalle continue dispute commerciali con gli Usa e più in generale legata alla forza del biglietto verde, che può averne accresciuto in modo eccessivo il peso sul totale delle riserve.

Le banche centrali (compresa quella cinese) potrebbero aver comprato oro anche perché attirate dalla relativa convenienza: le quotazioni in dollari sono diminuite per sette mesi consecutivi, una serie negativa che non si verificava da cinquant’anni, scendendo sotto 1.650 dollari l’oncia dagli oltre 2mila dollari di marzo.

Colpa delle politiche monetarie restrittive, che fanno salire i tassi di interesse e allontanano da un asset a rendimento zero. Il lingotto non ha reagito bene nemmeno all’ultima riunione della Fed, mercoledì 2 novembre, concludendo una giornata volatile intorno a 1.640 dollari, in ribasso di circa mezzo punto percentuale.

I riscatti di Etf, che proseguono da mesi, forse non si fermeranno. Ma grazie alle riserve auree e a una ripresa dei consumi in gioielleria la domanda totale di oro fisico è rimbalzata del 28% tra luglio e settembre, a 1.181 tonnellate secondo il Wgc, che attesta il ritorno a livelli pre pandemia.

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