di Cristina Casadei
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Non esiste un prodotto che sia stato creato e modificato senza ricorrere alle formule chimiche. Che ce ne accorgiamo o no, la chimica ci permea dalla testa ai piedi ed è proprio questa sua presenza dietro le quinte, ma diffusa che, secondo il presidente del Cefic (la confederazione europea delle industrie chimiche), Hariolf Kottmann (ceo di Clariant), ne fa «un fattore chiave per la transizione verso un’economia a basse emissioni». Se il futuro dovrà essere low carbon, come dice l’accordo sul clima di Parigi, quale settore più della chimica potrà dare un contributo concreto?
Le imprese del settore hanno sposato con grande convinzione culturale e grandi sforzi economici, come dimostrano gli investimenti crescenti, la via della sostenibilità.
La storia del programma di Responsible care racconta proprio attraverso i risultati raggiunti quanto sia forte l’investimento delle imprese chimiche sul fronte della sostenibilità. All’assemblea del Cefic, a Vienna, è stato ricordato che le imprese che partecipano al programma hanno ridotto del 50% le emissioni di CO2 dal 1990 a oggi e grazie all’evoluzione dei prodotti intermedi è possibile ridurre le emissioni dei prodotti finali delle diverse industrie di un terzo. Per rafforzare il programma di Responsible care il Cefic ha lanciato il piano di Chemistrycan, che parte dalle best practises dei membri del Cefic , e una Carta per la sostenibilità che guideranno la confederazione europea nel raggiungimento dell’obiettivo low carbon. Il direttore generale del Cefic, Marco Mensink, spiega che «la transizione verso un’economia più sostenibile offre un’opportunità di crescita unica per l’industria chimica, che consente di creare ricchezza e posti di lavoro allo stesso tempo».
Ma dove si trova la chimica europea oggi? A rispondere è il presidente di Federchimica, Paolo Lamberti: «Il 2017 ci restituisce un quadro incoraggiante che fa ben sperare anche per il prossimo anno. Dopo un 2016 deludente, la ripresa si è finalmente fatta strada e la produzione chimica europea è in espansione del 3,7% nei primi 8 mesi. E anche l’Italia, che è il terzo produttore chimico europeo, cresce ad un buon ritmo (+3,2%)». Se guardiamo ai dati sulla produzione nel 2016 il dato mondiale arriva a 3.360 miliardi di euro con la Cina che primeggia dall’alto dei suoi 1.394 miliardi di euro, seguita a una forte distanza dall’Europa (597), dai paesi Nafta ossia Usa, Canada e Messico (528), dal resto dell’Asia (344) e dal Giappone (140). L’evoluzione delle quote di mercato mostra l’avanzata senza sosta dei paesi “emergenti”, particolarmente evidente se prendiamo in esame l’ultimo decennio. Tra il 2006 e il 2016 la quota di produzione della chimica dell’Europa si è praticamente dimezzata, passando dal 28% al 15%, quella degli Stati Uniti è fortemente calata scendendo dal 21% al 14%. Al contrario quella della Cina è quasi triplicata: nel 2006 era del 16% oggi è del 41%.
Se invece si sonda il fattore occupazione, va sottolineato, secondo Lamberti, che «l’industria chimica, per le sue caratteristiche di industria basata sulla scienza offre posti di lavoro altamente qualificati e ben remunerati. In Europa gli addetti diretti sono 1,1 milioni che diventano 4 milioni se si considera anche l’occupazione attivata indirettamente. Il 10% sono in Italia». In un contesto di ripresa «nel quale le opportunità ci sono - aggiunge Lamberti - ma vanno colte muovendosi con rapidità, diventa ancora più urgente superare i vincoli del sistema paese, come l’incertezza riguardo le normative e in molti casi la loro difficile e rigida applicazione, nonché l’elevato costo dell’energia, mediamente superiore di oltre il 30% rispetto a quello sostenuto dagli altri competitor europei».
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