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Il lavoro da remoto non è decollato: in Italia solo il 14,9% degli occupati opera a distanza, con un potenziale pari a circa il 40%. La tendenza allo smart working ha ricevuto un grande impulso nel 2020, quando la quota di telelavoratori è passata, rispetto al 2019, dal 4,8% al 13,7%, ma rimane minoritaria. I dati emergono dalle analisi dell'Inapp. Per il presidente Sebastiano Fadda è “un'occasione non pienamente sfruttata, almeno per il momento. Svolgere una professione teoricamente telelavorabile è una condizione spesso necessaria, ma non sufficiente, perché si abbia la possibilità di sperimentare lavoro da remoto. Dai dati non emerge quel cambio di paradigma lavorativo che la pandemia sembrava aver innescato, almeno nel nostro Paese. È come se durante la pandemia avessimo vissuto in una grande bolla e il ritorno alla normalità stesse vanificando le potenzialità del lavoro a distanza, a causa di una ridotta capacità di introdurre radicali innovazioni nell'organizzazione del lavoro che preveda una combinazione di fasi di lavoro da remoto con fasi di lavoro in presenza”.
Il bacino potenziale dello smart working riguarda soprattutto i laureati, i dipendenti delle grandi imprese, gli occupati nei servizi e i dipendenti pubblici. Incidenze leggermente superiori alla media si rilevano tra le donne, i residenti nel Nord Ovest e nel Centro e le persone con diploma. Secondo le imprese fino a 5 dipendenti l’84% dei lavoratori svolge mansioni che non possono essere eseguite a distanza. Nel 2019 solo il 14,6% degli occupati in Europa lavorava abitualmente da casa. Col dilagare del Covid si è registrato un trend di crescita nei due anni successivi. L'Italia, che nel 2019 aveva percentuali al di sotto della media europea, con la pandemia ha raddoppiato tali valori, ma nel 2021 è emersa una frenata. Nella percezione di vantaggi e svantaggi del telelavoro c'è una differenza di genere, con gli uomini che apprezzano la maggior autonomia, e le donne che mostrano preoccupazione per prospettive di carriera, diritti e tutele sindacali.L'esperienza vissuta da milioni di lavoratori continuerà probabilmente a far parte del mondo del lavoro, anche se con diffusione ed intensità differenti. A livello micro le possibili ricadute in futuro riguardano la vita degli individui che hanno migliorato i livelli di work-life balance. Allo stesso tempo, tuttavia, lo smart working può esporre al rischio di isolamento e alla riduzione delle relazioni lavorative e sociali. A livello intermedio lo smart working può influire positivamente nell'organizzazione e nella produttività del lavoro.
Le imprese hanno iniziato a ripensare i processi lavorativi e, in alcuni casi, hanno modificato gli ambienti di lavoro, investendo in tecnologie digitali avanzate. Sarebbe importante implementare misure a supporto delle imprese meno agili prevedendo ad esempio, oltre ad agevolazioni fiscali e contributi a fondo perduto, specifici programmi di networking, consulenza, formazione, knowledge management e assistenza tecnica. A livello macro lo smart working può avere importanti ricadute: maggiore diffusione della digitalizzazione nei servizi pubblici, minor impatto ambientale, riqualificazione delle aree periferiche, sviluppo di spazi di coworking, ripopolamento delle Aree Interne. L'auspicio, rileva l'Inapp, è che si riesca valorizzare quanto sperimentato e appreso, prevedendo nuove strategie e strumenti per governare e superare le potenziali criticità.
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