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Per affrontare le sfide della modernità servono giuristi 2.0

di Lucio d'Alessandro

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Lo spostamento dei processi decisionali verso i giudici può generare pericolose ansie di protagonismo

23 marzo 2022
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3' di lettura

L’uso ormai bimillenario della parola tende a nasconderci la singolarità di un corso di studi, quello destinato alla formazione dei giuristi, intitolato ancor oggi non a una “scienza”, con tutto il senso di sicurezza che questa parola comporta nella modernità, ma a una più modesta prudenza: la prudentia iuris o giurisprudenza.

Il fatto è che nel mondo del diritto – da quello romano che per primo ha costituito un corpus organico di leggi, alle forme più rudimentali che l’antropologia giuridica ha dimostrato essere presenti in tutte le società, anche le più primitive – si è sempre avuta la consapevolezza che il sapere giuridico come scienza pratica della convivenza riguardasse soprattutto un equilibrio difficile, da ricercare sì secondo delle regole prestabilite, ma anche nel rapporto tra le parti, nella proporzione tra gli interessi in campo. Non per caso, sin dalla mitologia greca si è affermato il simbolo della bilancia quale attributo di Themis, la dea della legge e della giustizia. E non si è trattato mai della stadera romana, che aveva un solo piatto collegato a un peso: i piatti sono sempre due, a testimoniare visivamente la necessità di soppesare posizioni diverse, anche tra loro conflittuali, nella ricerca di un equilibrio di cui è restata traccia significativa anche nella semantica storica. Da Vico ad Heidegger si è riflettuto sulle implicazioni della derivazione di ius da iubeo, il verbo del comando; e tuttavia vi è anche una lunga tradizione che fa derivare ius da iungo, con riferimento all’aspetto del diritto come rapporto, capacità di mettere insieme, di congiungere.

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Questa polisemia (da una parte il potere di coercizione, per mantenere l’ordine; dall’altra la mediazione finalizzata alla conciliazione) rende ragione della centralità anche contemporanea della formazione alla professioni giuridiche: non mero trasferimento di tecniche per l’interpretazione e l’applicazione di norme e sanzioni, ma apertura alla capacità di soppesare ragioni e motivazioni, di essere partecipi della vita di una società, di individuarne gli snodi problematici e prospettici, come – per citare la più stringente attualità – nell’articolato discorso sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, o nel confronto anche polemico sui referendum bocciati dalla Consulta.

Proprio al ruolo e al cambiamento delle professioni giuridiche nell’era della tecnologia l’Università suor Orsola Benincasa di Napoli sta dedicando un ciclo di lezioni magistrali ideato dal costituzionalista Tommaso Frosini e aperto a tutti anche da remoto (www.unisob.na.it/eventi/) intitolato «Giurista 2.0», che è stato inaugurato lo scorso 15 marzo da Gustavo Zagrebelsky, sul tema “La professione del giurista”.

In una società in rapida trasformazione, il giurista 2.0 è innanzi tutto un professionista consapevole: consapevole della complessità dei mutamenti indotti dalla tecnologia (si pensi all’accelerazione impressa dalla pandemia al “diritto a internet” quale spartiacque fra inclusione ed esclusione sociale); consapevole delle contraddizioni che il mondo globale pone alla cultura dei diritti (il conflitto russo-ucraino in atto ne è testimonianza lampante); consapevole dei rischi connessi all’eccesso di proceduralizzazione del diritto, che tende a neutralizzare e a imbrigliare le forze sociali, generando uno spostamento dei processi decisionali dalla sfera del decisore politico a quella della decisione del giudice. Ecco, quest’ultimo aspetto sta assumendo un rilievo decisivo, per il rischio che la defilata prudentia connotante da sempre il diritto lasci il posto ad ansie di protagonismo. Si ricordi che, insieme con la bilancia a due piatti, la rappresentazione iconologica della giustizia include anche la benda sugli occhi, oltre al gladio per la punizione del reo. Nella sua fortunatissima Iconologia (1593), Cesare Ripa spiegava che la giustizia si veste di bianco ed è bendata, perché il giudice non possa «deformar la giustizia» con «macchie di passione» o guardando ad altro che non sia «la ragione». Le competenze del “giurista 2.0” debbono dunque accompagnarsi alla postura, più ricca e sfaccettata, dell’ascolto ponderato, evitando le derive che la società dello spettacolo tende ad amplificare e che già Beccaria aveva evidenziato in alcune figure di giudice a lui contemporanee, protese non alla ricerca della «verità del fatto», ma solo «del delitto nel prigioniero».

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