di Chiara Bussi
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La lunga corsa è cominciata. L’obiettivo, che al momento appare ancora un miraggio, è il raggiungimento delle emissioni zero, formula magica per salvare il pianeta. Per contenere la temperatura media entro 1,5° come previsto dall’Accordo di Parigi del 2015 le emissioni di carbonio dovrebbero raggiungere infatti questo livello entro il 2050. Uno sforzo ribadito anche dall’Unione europea con il Green Deal e la strategia “Fit for 55” che punta a ridurre le emissioni di almeno il 55%, appunto, entro il 2030 rispetto al 1990 e ad azzerarle entro metà secolo. Tutti gli attori economici dovranno fare la loro parte, con le imprese in prima fila che da un lato fanno fronte comune verso i nuovi obiettivi e dall’altro stanno iniziando a scriverli nero su bianco rendendoli sempre più stringenti. Riusciranno ad arrivare al traguardo? La sfida è ambiziosa e non sarà certo un percorso netto.
Sono oltre mille le aziende della Climate Ambition Alliance sotto l’egida dell’Onu che riunisce in tutto più di 2mila soggetti. Nel corso degli anni sono sorte altre associazioni, in particolare nel settore finanziario, per ribadire l’impegno verso il net zero.
Sfida ambiziosa
Qualcosa, dunque, lentamente si muove, come rileva anche il recente report di Accenture “Reaching net zero by 2050”. Circa il 9% tra le mille principali società quotate europee ha ridotto le emissioni nell’ultimo decennio . E circa un terzo punta a raggiungere la meta entro il 2050. La maggior parte delle imprese - si legge nel report - dovrà però raddoppiare il ritmo di riduzione nei prossimi dieci anni e poi accelerare ancora per raggiungere il net zero. Servirà dunque «un cambio di passo nell’innovazione tecnologica e nella collaborazione tra settori per arrivare al traguardo».
Se tutte le aziende si allineassero a quelle più avanzate in termini di riduzione dei gas serra nei rispettivi settori, rileva un altro report targato Oliver Wyman («Now for Nature: the decade of delivery») che ha analizzato i dati di oltre 1.220 aziende europee quotate, ogni anno si eviterebbero emissioni pari a quelle del Regno Unito e dell’Irlanda. «Il numero di quelle che hanno approvato target di riduzione della CO2 è cresciuto dell’85% nel 2021, ma solo il 16% ha obiettivi allineati all’Accordo di Parigi e i progressi sono ancora lenti» fa notare Andrea Federico, partner della società di consulenza responsabile dell’area Clima e sostenibilità. «Si tratta di una percentuale ancora esigua - dice - ma la spinta a questo enorme salto culturale partirà da loro. La vera sfida sarà il coinvolgimento di tutta la catena del valore in questo meccanismo virtuoso che rappresenterà anche un vero e proprio dividendo in termini di competitività».
Proprio per invertire la rotta il mese scorso è stata annunciata CO2alizione Italia, a cui hanno aderito oltre 60 aziende del nostro Paese che hanno modificato il proprio statuto inserendo il principio della neutralità climatica. «Il filo rosso che le unisce - spiega Eric Ezechieli, co-fondatore di Nativa, tra i promotori dell’iniziativa - è la scelta di innovare la governance in maniera innovativa: l’obiettivo della neutralità climatica diventa una finalità d’impresa vera e propria, al pari del profitto, e protetta nel tempo. Non si tratta di promesse generiche, ma di un impegno che diventa parte integrante della governance aziendale e strumento per diffondere il nuovo paradigma». Ogni azienda, conclude Ezechieli, «dovrà poi stabilire e rendicontare annualmente azioni e obiettivi concreti rispetto agli impegni presi». La sfida è raddoppiare il numero di imprese aderenti entro fine anno e coinvolgerne il più possibile in futuro. Già oggi quelle che fanno parte della “colazione” contano un fatturato aggregato di circa 30 miliardi di euro.
Gli ostacoli sul cammino
«L’inserimento nel business plan o nello statuto aziendale di politiche per il raggiungimento del net zero significa un esplicito impegno da parte del board sia nei confronti degli azionisti e obbligazionisti che in generale verso tutti gli stakeholder», sottolinea Federica Doni, codirettrice del master Silfim (Sostenibilità in diritto, finanza e management) dell’Università Bicocca.
Il dibattito è acceso. «Senza adeguati indicatori condivisi a livello internazionale - rileva - appare molto più difficile individuare differenti target e quantificarne l’impatto sulla performance economico-finanziaria. La possibilità di cambiare le formule di valutazione includendo i fattori Esg e le istituzioni della ricerca sul clima nei processi di investimento dovrebbe quindi rappresentare un effettivo incentivo, anche attraverso un maggiore ricorso dei diritti di voto durante le assemblee societarie».
Un ostacolo è rappresentato dai fattori geopolitici. «La pandemia e la guerra - conclude Doni - possono aver determinato un certo rallentamento nel processo di integrazione dei target net zero nel business plan. La possibilità di un effettivo miglioramento degli standard di reporting porterà a fissare obiettivi di riduzione di CO2 per i portafogli di investimento in maniera più chiara e gestibile».
Chiara Bussi
Redattore
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