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Una visione culturale alta alla base delle prossime strategie trasformative

di Pier Luigi Sacco e Paolo Venturi

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(RafMaster - stock.adobe.com)

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27 novembre 2021
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4' di lettura

La crisi che ci troviamo ad affrontare ha pochi precedenti storici, per scala e complessità. Anche le guerre mondiali, per quanto devastanti, avevano concentrato la maggior parte dei loro danni su alcuni territori, lasciandone indenni. Ma questa pandemia rappresenta forse la prima crisi della storia dell’umanità dalla portata geografica globale: nessun territorio può dirsi al sicuro finché ve ne sono altri ancora esposti alla minaccia. È evidente che per rispondere a una sfida come questa non si può fare ricorso solo all’esperienza e al già visto. E dovrebbe essere altrettanto evidente che non può nemmeno bastare mettere a disposizione una quantità eccezionale di risorse, se il modo in cui le si impiega si conforma a ricette di sviluppo elaborate
in un contesto socio-economico pre-pandemico. Avremmo avuto la macroeconomia keynesiana senza
la Grande depressione? E di quale ra€

dicale cambio di punto di vista abbiamo bisogno oggi per uscire da una crisi molto più grave di quella?

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Tutti i principali fallimenti di policy degli ultimi decenni sono ascrivibili a un’unica, profonda limitazione: la “vista corta”, l’incapacità di valutare una situazione non secondo la logica del consenso istantaneo, ma da un punto di vista basato sul cosiddetto ragionamento saggio: una combinazione di umiltà intellettuale, di riconoscimento del ruolo dell’incertezza e del cambiamento, della necessità di tenere conto di più prospettive alternative e di una loro significativa integrazione. Una prospettiva sfidante che assume la complessità come “spazio aperto” capace di aumentare le opportunità per tutti e non solo per i più “protetti”. Come mostrano Grossman et al in uno studio pubblicato su Nature Human Behavior nel 2017, quando i soggetti sperimentali sono messi nelle condizioni di valutare una situazione di interazione strategica dal punto di vista dell’interdipendenza dei propri scopi con quelli altrui, e quindi da una prospettiva “in terza persona” piuttosto che da quella strettamente individuale, la loro propensione a cooperare aumenta sensibilmente.

La nostra incapacità di “vedere” al di là della nostra prospettiva individuale, come individui e come collettività, è la principale causa dei nostri fallimenti rispetto alle grandi sfide sociali. Ma come è possibile evadere dalla gabbia di questa vista che non è soltanto troppo corta, ma anche troppo stretta? Come risolvere i dilemmi cooperativi che il “cambio d’epoca” che stiamo vivendo richiede? La risposta è evidente: attraverso la cultura. Consideriamo ad esempio la letteratura, che come ci mostra la neuroscienza cognitiva è una risorsa estremamente potente di cognizione sociale, un canale fondamentale per comprendere le intenzioni, i pensieri e il comportamento degli altri. Come spiega Angus Fletcher nel suo Wonderworks (2021), la letteratura può funzionare come una vera e propria tecnologia che ci induce ad assumere dei punti di vista “altri” che aumentano la nostra capacità di ragionamento saggio. Più in generale la cultura, lungi dall’essere soltanto una forma più o meno elitaria di intrattenimento o semplicemente un settore che fattura molto più di quanto si creda comunemente, è un elemento chiave della nostra capacità di reagire in modo originale ed efficace a sfide nuove e difficili, ed è stato proprio questo uno dei fattori evolutivi che ne ha guidato lo sviluppo.

Al nostro policy making serve uno scatto nuovo nello “sguardo” che può derivare proprio da una immersione diversa nella cultura come percorso di acquisizione di nuove competenze – ed è proprio in questa direzione che muove il progetto “Renaissance Now: Art is a game changer for societal challenges”, promosso dalla Cultural Agents initiative della Harvard University. Senza un uso profondo e innovativo della cultura come capacità di assumere e integrare punti di vista differenti sulla realtà, non saremo in grado di produrre un pensiero e una policy adeguati a rispondere alle sfide che dobbiamo affrontare.

Non è un caso che questo ruolo “trasformativo” della cultura sia alla base del progetto bandiera della Nuova Bauhaus Europea che mostra la direzione per la transizione verde del nostro continente, nonché al centro della Nuova Agenda Europea della Cultura che per la prima volta assegna alla cultura un ruolo chiave nell’affrontare sfide sociali come la promozione della salute e del benessere, la coesione sociale e la promozione della diversità, l’innovazione socialmente sostenibile e l’educazione inclusiva. Un ruolo che si legge molto bene nelle call già pubblicate dei programmi europei come Horizon Europe e nel lancio della nuova Kic sulle industrie culturali e creative, ovvero l’inclusione della cultura tra gli ecosistemi innovativi più strategici per il futuro dell’Europa assieme al digitale, al clima, al cibo, alla salute, all’energia, alla manifattura, alle materie prime e alla mobilità urbana. È arrivato il momento di prendere la cultura sul serio, e di farla diventare il punto di forza delle nostre strategie trasformative. Troppo spesso vediamo ciò che accade, ma non siamo capaci di guardare in profondità, rischiando così di essere bloccati o impotenti rispetto alla domanda di futuro buono che le nuove generazioni attendono. Nutrire “la sfera del politico” di uno sguardo culturale è una priorità per uscire dal trade off fra utilità e felicità pubblica. L’Italia ha fatto un primo passo significativo in questa direzione durante la sua presidenza di turno del G20, lanciando per la prima volta un gruppo di lavoro sulla cultura. Sarebbe bello che facesse anche il passo successivo, portando la visione culturale al centro dell’attuazione del Pnrr, che disegnerà il futuro del nostro Paese.

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