di Natalino Irti
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In una fra le pagine più schiette e dolenti delle Memorie, il principe Klemens von Metternich confessa: «Io tiro una linea fra ciò che era e ciò che è. Questa demarcazione comincia alle ore 11 della notte fra il 13 e 14 marzo 1848. Io sono l’uomo di ciò che era». In quella notte il vecchio Cancelliere lascia il governo dell'Impero austriaco; tramonta il “sistema Metternich”, che dal 1815 aveva garantito la tranquillità dei popoli e l’equilibrio degli Stati europei. Sul “principio di legittimità” gravitava l’ordine continentale: continuità delle antiche dinastie, rigida determinazione dei confini, libertà «considerata – egli scrive nel proprio testamento politico – come la conseguenza inevitabile dell’ordine».
I fatti rivoluzionari del marzo 1848 svelano le forze ignote, o appena intraviste, delle singole nazionalità. Ma essi appaiono a Metternich «opera di studenti traviati, di qualche rissoso appartenente a varie classi sociali, e di un certo numero di borghesi che hanno la mania di parlare senza conoscenza di avvenimenti che interessano il mondo». Una sorta di tragica incomprensione, non cogliere e capire il significato dei moti nazionali, ossia l’identità storica dei popoli. Il grande Cancelliere si riconosce e chiude in ciò che era, mentre l'Europa, scioltasi dalle decisioni del Congresso di Vienna e dal legittimismo dinastico, si apriva a fatica una nuova strada. Il principio politico di nazionalità, trionfante nel secolo XIX e fonte di Stati unitari e indipendenti, aveva in sé anche un che di malsano e torbido, una vena di cieco irrazionalismo, una volontà di agire come semplice e crudo agire. Esso non è ancora spento (è un “linguaggio antico”, direbbe il filosofo Biagio de Giovanni), e forse non può spegnersi, ma, di tempo in tempo, si stringe con altri principi e criteri di condotta. Dinanzi a sé o contro di sé trova principi di carattere internazionalistico, i quali sono anch’essi politici, e, sotto schermo di diritti naturali o di umanitaria solidarietà, rivendicano, al pari degli altri, il ‘diritto di intervento' in Stati stranieri.
Non si vuol qui tracciare un disegno storico (né si saprebbe), ma soltanto segnalare questa storica relatività degli ordini politici, nessuno dei quali ha per sé l’assoluto e l’eterno. E tutti nascono, si svolgono, si esauriscono nel conflitto delle forze concrete o dei molteplici principi. Così è accaduto al principio di nazionalità, che, apparso superato e trasceso con i trattati di Versailles e la sconfitta tedesca del 1945, ha poi determinato la “guerra fredda” e la divisione del mondo in due blocchi. Si dice principio di nazionalità, ma pur chiarendo che esso si era ormai esteso al di là dell’Atlantico, chiamava in causa anche paesi orientali, e si presentava frammisto a ragioni ideologiche o razziali.
Questo mostra che gli Stati, nella loro chiusa configurazione, non erano più capaci di contenerlo, e che si venivano delineando – come genialmente intuì il controverso Carl Schmitt (Grossraumtheorie), – «grandi spazi» terrestri abbraccianti, nel segno di singoli principi politici (ma pure economici e industriali), una pluralità di Paesi. In essi continuava, e continua a parlare, il “linguaggio antico” della nazionalità, congiungendosi o celandosi dietro altri principi, e poi riaffiorando nella sua terribile potenza. Forse alla memoria del Cancelliere austriaco, lontano da Vienna e dagli uffici pubblici, tornava il famoso colloquio con Napoleone, simbolo di un declinante ordine europeo, al quale si contrapponevano il legittimismo monarchico e il desiderio di pace. E forse gli appariva che gli ordini ed equilibri fra Stati sono consegnati al mutevole corso storico, che anche il sistema uscito dal Congresso di Vienna tramontava, e che la pace è come un’effimera sosta e un breve intervallo. Gli uomini non hanno riposo, interessi economici e disegni militari vengono in urto, i popoli si agitano in continua irrequietezza, e un ordine succede all'altro, illuso di essere definitivo e di esaurire le energie creatrici di storia.
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