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La crescita professionale post pandemia passa dall’intelligenza artificiale

di Gianni Rusconi

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(AFP)

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L’83% del campione ritiene che per compiere scelte di carriera le tecnologie siano migliori di un essere umano perché non influenzate da pregiudizi

17 gennaio 2022
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3' di lettura

Per la stragrande maggioranza dei lavoratori è giunto il momento di rivolgersi a un robot software o a una chatbot, invece che a una persona, per il proprio sviluppo professionale. È un assunto che non lascia troppo spazio ai fraintendimenti quello che emerge dall’ultima edizione dello studio “AI @ Work”, condotto su scala globale da Oracle in collaborazione con Workplace Intelligence su un campione di oltre 14mila dipendenti a tempo pieno fra responsabili delle risorse umane, impiegati, manager e C-level. La ricerca ha messo sotto osservazione la ripartenza professionale di queste figure analizzando gli impatti dell’emergenza Covid-19 e la possibile adozione dell’intelligenza artificiale negli ambienti di lavoro.

C’è, in linea generale, un disagio diffuso fra i lavoratori che si specchia in problematiche di ordine finanziario, emotivo e legate al benessere fisico e mentale delle persone. Quasi un intervistato su due, il 43% per la precisione, afferma per esempio di aver perso controllo sul proprio futuro, il 41% sulla propria carriera e il 59% sulle proprie relazioni. Ed è proprio per superare questo disagio e le difficoltà dell’ultimo anno che la maggior parte dei professionisti desidera cambiare il proprio percorso lavorativo, puntando su priorità quali il work life balance e la flessibilità.

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Ciò che emerge dallo studio è una tendenza sempre più chiara in questi ultimi dodici mesi segnati dall’emergenza sanitaria, ovvero sia il gap (spesso anche significativo) esistente tra i desideri degli addetti aziendali e ciò che le organizzazioni di cui fanno parte offrono loro. Due indicatori esemplificano concretamente il concetto: l’83% dei professionisti oggetto di indagine si dichiara pronto a un cambiamento ma l’85% di questi non si sente adeguatamente supportato dal proprio datore di lavoro in attività critiche come l’acquisizione di competenze necessarie a intraprendere nuovi ruoli.

E quando si tratta di capire come meglio affrontare il futuri per quanto riguarda le scelte di carriera, l’83% del campione è dell'idea che le tecnologie basate sull’intelligenza artificiale (AI) possano essere di maggior aiuto rispetto a un essere umano, perché in grado di fornire raccomandazioni non influenzate da bias/pregiudizi (lo dice il 37% degli intervistati), di dare risposte più velocemente (il 33%) e di aiutare a trovare nuove posizioni in linea con le competenze possedute (il 32%). Non passa certo inosservato, inoltre, come il 55% dei lavoratori affermi che resterebbe più probabilmente fedele a un’azienda che ricorra all’uso dell’intelligenza artificiale per supportare la crescita professionale dei propri addetti.

Guardando al 2022, la crescita professionale è per l’appunto la componente più importante: in un caso su due, pur di avere nuove opportunità di carriera, i lavoratori si dichiarano disponibili a rinunciare a benefit come ferie e bonus economici mentre in due casi su cinque a sacrificare parte del salario. In ogni caso, circa un terzo chiede alla propria organizzazione più possibilità di formazione e concrete opportunità di coprire nuovi ruoli.

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La fame di nuove competenze non ancora soddisfatta si specchia quindi nell’elevatissima percentuale di lavoratori (l'85%) che vede nella tecnologia, e nell’intelligenza artificiale in modo specifico, lo strumento ideale per aiutarli a definire il loro futuro mentre circa un terzo la vede come soluzione perfetta per identificare le competenze da sviluppare e per suggerire i passi da compiere per perseguire obiettivi professionali.

Se guardiamo all’Italia, come va intesa questa mancanza di “fiducia” espressa dal campione oggetto di indagine? Può essere un segnale preoccupante della qualità della relazione in essere fra lavoratori e vertici aziendali? Secondo Luca Vellini, Cloud Hcm Country Leader di Oracle, il punto focale della questione è proprio la relazione.

“Oggi più che mai, fiducia, trasparenza, capacità di delega e senso di responsabilità sono componenti fondamentali per un’azienda e da questi valori, anche nel lavoro ibrido, non si può e non si deve tornare indietro. I modelli positivi sperimentati nell’esperienza dello smart working - aggiunge il manager - vanno consolidati non solo in termini di flessibilità e di maggiore autonomia, ma anche in termini di empatia e di maggiore apertura personale. Un dipendente che si interroga sul proprio sviluppo professionale chiede alla propria azienda ascolto e opportunità nuove: se non li trova, si rivolge altrove”.

Nel “new normal”, secondo Vellini, servirà creare percorsi che riorganizzino l’attività dei dipendenti in modo agevole e soddisfacente, sia per il lavoratore che per l’azienda. E la tecnologia, in tal senso, può essere un grande abilitatore.

“L’uso di strumenti basati su AI nell'ambito delle risorse umane è già diffuso per vari processi, dalla ricerca e selezione alla gestione della persona nel suo percorso in azienda in ottica di retention, formazione, crescita professionale e di sviluppo di carriera. Oggi le aziende - conclude - riconoscono il valore di una componente di automazione che non prevarica l’aspetto umano, ma al contrario, supporta l’individuo nella gestione dei micro-processi e nella strutturazione della relazione tra colleghi e tra manager e collaboratore”.

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