di Leonardo Becchetti
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Ha destato scalpore ed animato il dibattito tra le forze politiche del paese la bozza di direttiva Ue con la proposta shock che tutti gli edifici (con alcune eccezioni) debbano passare almeno in classe E entro il 2030 ed in classe D entro il 2033. Un bel problema per il nostro Paese dove circa il 60% degli edifici residenziali sono di classe F o G, lontanissimi dallo standard ottimale della classe A4.
L’efficientamento energetico degli edifici (che rappresentano circa il 40% delle emissioni e il 38% dei gas nocivi) è un tassello fondamentale della strategia di contrasto all’emergenza climatica. Secondo l’Agenzia Internazionale per il Clima entro il 2030 tutti i nuovi edifici devono essere ad emissioni zero, mentre entro il 2040 il 40%, ed entro il 2050 l’85% degli edifici vanno ristrutturati per raggiungere lo stesso obiettivo. Installazione di pannelli solari, nuovi infissi, pompe di calore, coibentazione sono i tipi d’intervento necessari per raggiungere il duplice obiettivo di riduzione delle emissioni e di polveri sottili che sono responsabili ogni anno di circa 7 milioni di morti nel mondo e hanno aggravato l’impatto del Covid soprattutto nella pianura padana.
I sussidi pubblici sono fondamentali per conseguire questo traguardo perché nessun proprietario di casa o condominio si muoverebbe da solo altrimenti.
La protesta nei confronti della proposta Ue nasce dalla convinzione che l’efficentamento degli edifici sia un bagno di sangue per cittadini e governi. Non necessariamente sarà così se si sapranno correggere alcuni limiti ed errori rispetto a quanto fatto sino ad ora con il 110% che ha avuto due problemi principali.
Il primo è aver stabilito un credito fiscale il cui valore netto scontato era, almeno al momento iniziale, superiore al costo totale dell’intervento (si cedeva sul mercato anche a 102). Questo ha favorito la collusione tra ditte che hanno effettuato i lavori e proprietari di case per far lievitare il costo degli interventi contribuendo a far lievitare i prezzi dei materiali e ad aumentare l’onere per lo Stato. Il secondo è non aver calcolato gli effetti di equilibrio economico generale della cessione del credito d’imposta. Ovvero aver ragionato sul singolo intervento ma non sull’impatto generale che una grande quantità di interventi avrebbe generato su domanda, offerta e prezzi di mercato dei crediti stessi. La cessione del credito dimposta nasce con ottime intenzioni perché consente anche agli incapienti o a proprietari con bassa capacità fiscale di poter effettuare la ristrutturazione. Se infatti ho un credito fiscale di 40.000 euro (tasse che non pagherò) ma non pago tasse per il basso reddito posso cederlo alla ditta appaltatrice che a sua volta lo cederà ad una banca che ha una capienza fiscale molto maggiore. L’enorme mole degli interventi ha però saturato la capacità fiscale anche delle banche ed oggi sul mercato il credito d’imposta viene ceduto ad uno sconto anche del 20%, ovvero un 110 vale anche 88.
Quanto ai conti per le casse dello Stato come sappiamo è sbagliato dire che il costo per le finanze pubbliche sia stato uguale all’ammontare dell’incentivo. Tra i vari studi d’impatto realizzati ad oggi quello del Censis calcola che i 55 miliardi investiti hanno attivato un valore della produzione totale di circa 115 miliardi di euro, generando così tasse addizionali che hanno coperto il 70% della spesa pubblica iniziale.
Come sottolineato da molti analisti il 110 ha determinato quasi la metà della crescita economica nel Paese negli ultimi due anni. Con un intervento ritarato sul 90 anziché il 110 e spalmato in un orizzonte di tempo più ampio si possono evitare i due problemi del 110. Anche con il 90 e persino con lo sconto del 20% dei crediti d’imposta di questi tempi di mercato ingolfato l’intervento resta assolutamente conveniente per i cittadini perché i guadagni di riduzione di spesa di riscaldamento successivi alla ristrutturazione, combinati con l’aumento del valore dell’immobile (almeno 5% per ogni doppio salto di classe), più che compensano la spesa viva non coperta dall’incentivo.
Esistono poi modelli di ristrutturazione chiavi in mano dove le energy saving companies si fanno carico dell’intervento evitando ogni onere per i cittadini e rientrando dalla spesa viva dell’investimento attraverso i benefici dei risparmi della spesa di riscaldamento che vanno nei primi anni all’impresa invece che al proprietario di casa. Questi modelli potrebbero ad esempio essere efficaci ed applicabili al patrimonio delle case popolari dove sono le amministrazioni pubbliche ad essere proprietarie degli immobili.
L’Ue sta riflettendo su come rispondere all’Inflation Reduction Act di Biden, un gigantesco piano d’incentivi alla transizione ecologica che è anche un aiuto alle imprese americane che operano nel settore.
Una parte della risposta europea tramite il RePowerEU può essere proprio quella di un finanziamento (o di un rifinanziamento) europeo alla ristrutturazione degli edifici negli stati membri.
E verso questo obiettivo che le forze politiche che stanno criticando e discutendo la misura dovrebbero convergere per mettere assieme transizione ecologica, contrasto al riscaldamento globale e convenienza economica per cittadini, imprese ed amministrazioni pubbliche.
Leonardo Becchetti
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