di Roberto D'Alimonte
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Le correnti interne alla magistratura non sono eliminabili. Né è eliminabile il ruolo che hanno nella elezione dei membri del Csm. È in questa prospettiva che va valutata la riforma del sistema elettorale con cui i magistrati eleggono ogni quattro anni i membri del proprio organo di autogoverno. E infatti con una buona dose di realismo il ministro competente Marta Cartabia ha sempre fatto riferimento a un obiettivo più modesto, e cioè la riduzione della loro influenza. In che misura il nuovo sistema elettorale proposto serve a realizzare questo obiettivo?
In base alla riforma il nuovo Csm sarà un po’ più ampio di quello attuale. I membri saranno 30 e non più 24. Venti saranno i componenti eletti dai magistrati ordinari (i membri togati) e 10 quelli eletti dal Parlamento in seduta comune a scrutinio segreto e con la maggioranza dei 3/5 (i membri laici). L’elezione dei togati segue una procedura complessa che deve tener conto di tre diverse categorie di magistrati. Due togati sono eletti tra i magistrati di cassazione in un collegio unico nazionale. Vincono i due candidati con il maggior numero di voti. Cinque togati sono eletti tra i pubblici ministeri in due collegi. In ciascun collegio sono eletti i due candidati con più voti. Il quinto togato di questa categoria è il candidato che risulta come miglior perdente nei due collegi.
Fin qui siamo a sette membri togati. Ne restano da eleggere 13 nella categoria più numerosa che è quella dei magistrati giudicanti. E qui le cose si complicano. Otto di loro sono eletti in quattro collegi in ciascuno dei quali vincono i due candidati con più voti. La stessa formula usata per le altre due categorie. A questi otto però se ne aggiungono altri cinque eletti in un collegio unico nazionale con sistema proporzionale. Per eleggere questi cinque, i candidati che si presentano nei quattro collegi già citati possono collegarsi tra di loro. Il collegamento è ammesso sia tra candidati dei diversi collegi che tra quelli dello stesso collegio. In pratica si formeranno dei gruppi che prenderanno il posto delle liste del passato. Quindi si fa la somma dei voti ottenuti nei quattro collegi dai diversi gruppi. Da questa somma si scorporano per intero i voti ottenuti dai candidati vincenti e si procede alla distribuzione dei cinque seggi usando la formula del quoziente, naturale, cioè dividendo la cifra scorporata di ciascun gruppo per cinque. I seggi vengono poi attribuiti ai candidati che in ciascun gruppo hanno ottenuto la percentuale di voti più alta. In sintesi, nel nuovo Csm siederanno due magistrati di cassazione, cinque pubblici ministeri e 13 giudici, oltre ai 10 membri laici eletti dal Parlamento.
Il lettore paziente che sarà arrivato alla fine del precedente paragrafo avrà capito che si tratta di un sistema bizantino. In pratica siamo davanti a un sistema misto che mette insieme una componente maggioritaria, i collegi binominali, e una componente proporzionale con l’aggiunta del ripescaggio e dello scorporo. Insomma un sistema con un po’ di tutto. E già questo insospettisce.
Prima di procedere a un tentativo di valutazione, completiamo la descrizione delle altre caratteristiche. L’elettorato attivo per tutte le categorie di eletti è rappresentato da tutti i magistrati. Non esistono filtri per la presentazione di una candidatura. Chiunque si può presentare. In ciascun collegio i candidati devono essere almeno sei, con donne e uomini rappresentati pariteticamente. Se le candidature “spontanee” sono meno di sei si procede al sorteggio dei candidati mancanti tra tutti i magistrati del collegio in questione che si dichiarano disponibili.
Torniamo adesso alla domanda da cui siamo partiti. Un sistema del genere può effettivamente ridurre il peso delle correnti nel processo di formazione del nuovo Csm? Secondo noi la risposta è negativa. Argomentare pienamente questo giudizio esula da un articolo di giornale e quindi ci scusiamo con i lettori se ci limitiamo ad alcune sintetiche osservazioni. A nostro avviso per raggiungere l’obiettivo dichiarato dal governo sarebbe stato necessario introdurre un sistema elettorale grazie al quale per essere eletto un candidato avrebbe dovuto arrivare alla maggioranza assoluta dei voti. Questo si può ottenere con un sistema di collegi uninominali maggioritari e doppio turno. Ma sarebbe complicato in questo caso chiamare i magistrati a votare due volte. Ma lo stesso obiettivo si può ottenere anche con il voto alternativo che è una specie di doppio turno in un turno solo.
Questo sistema funziona sulla base di collegi uninominali. In ciascun collegio gli elettori esprimono il voto mettendo in ordine di preferenza tutti i candidati da quello più preferito a quello meno. Se nessun candidato ottiene la maggioranza assoluta dei voti si eliminano i candidati meno votati e le loro seconde preferenze vengono assegnate ai candidati rimasti in lizza. Il procedimento prosegue fino a quando uno dei candidati non arriva alla maggioranza assoluta dei voti sommando prime e seconde preferenze. Anche questo sistema è manipolabile da correnti organizzate ma le “costringerebbe” a proporre candidati capaci di prendere i voti non solo dei loro affiliati ma di una platea più vasta. Così facendo renderebbe l’esito del voto più incerto e più aperto a candidature trasversali. Per questo sarebbe più efficace per raggiungere l’obiettivo dichiarato dal governo. Le seconde preferenze sono uno strumento importante di democrazia in qualunque collettività. Lo sono tanto più in una collettività relativamente piccola come quella dei magistrati, per di più dotata delle risorse cognitive per utilizzare un sistema relativamente sofisticato come il voto alternativo.
Con il sistema proposto dal governo invece tutto questo non avverrà. Le correnti non avranno difficoltà a coordinarsi per fare in modo da eleggere i propri candidati con un numero limitato di consensi. La previsione che i candidati eletti nei collegi siano due e non uno va in questa direzione. La norma del minimo di sei candidature, che è stata pensata per favorire una maggiore partecipazione, potrebbe rivelarsi un boomerang,facilitando la dispersione dei voti e quindi l’elezione di candidati minoritari. La presenza di una quota proporzionale che implica la formazione di gruppi di candidati servirà a consolidare il ruolo delle correnti come strumento di coordinamento. Quindi, tanto rumore per poco o se si preferisce Tomasi di Lampedusa a Shakespeare, cambiare tutto per non cambiare nulla… o quasi.
Roberto D'Alimonte
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