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Cvc rompe il tabù dell’Ipo: l’ «eresia» dei fondi di private equity in Borsa

di Simone Filippetti

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Il maggior fondo europeo decide di quotarsi: vale 40 miliardi di dollari. Il rischio del «cortocircuito» dei capitali privati che diventano pubblici.

11 aprile 2022
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4' di lettura

Lungo lo Strand, vialone che un tempo fiancheggiava il fiume Tamigi, il nome deriva dall’inglese medievale per “argine”, è un pullulare di negozi e teatri. Per secoli è stata la strada dell’alta borghesia di Londra: oggi sono turisti che affluiscono alla Somerset House, l’enorme palazzo che ospita le famose gallerie d’arte.
Nella massificazione commerciale della via, passa inosservato un edificio adiacente al museo, grigio e anonimo. Eppure una grossa fetta dalla finanza e dell’industria mondiale, ha casa lì dentro: è la sede di Cvc, il più grande fondo privato di investimento in Europa, con una dotazione di 130 miliardi euro.

La presenza di Cvc nel mondo

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Controlla 100 aziende in giro per il pianeta, con 450mila dipendenti indiretti. C’è di tutto: dal the Lipton agli orologi Breitling; dalla catena spagnola di abbigliamento Cortefiel ai supermercati americani per animali Petco. Tuttavia a Londra hanno una passione spiccata per lo sport. Ex proprietario della Formula 1 venduta alla Liberty Media, oggi è il padrone della Liga, il campionato di calcio spagnolo; del Sei Nazioni, il torneo internazionale di rugby; e del popolare campionato di cricket in India.

Nato negli Anni 60 da una costola di Citicorp, la banca americana, come ramo di capitale di rischio, Cvc era la sigla per Citicorp venture capital, il fondo si è staccato nel 1981: società indipendente con quartier generale a Londra. In Italia, è stato il proprietario della società di scommesse Sisal; ha di recente comprato Pegaso, l’università telematica, dall’imprenditore Danilo Iervolino che con l’incasso ha rilevato il settimanale l’Espresso dal gruppo GEDI della famiglia Agnelli.

L’interesse per la Serie A

Cvc ha messo nel mirino anche la Serie A, sempre a proposito di sport. L’anno scorso ha pure tentato una scalata impossibile, al cuore del Giappone: voleva comprarsi la Toshiba, la più vecchia azienda nipponica. Il moloch della finanza ora ha un obiettivo ancor più ambizioso e soprattutto dirompente: quotarsi in Borsa. Da capitale privato, per definizione, ad azienda pubblica, in quanto quotata.

Nel caso di Cvc sarebbe un unicum: sarebbe la Ipo più grande della storia della finanza, al livello della cinese Alibaba. Le banche d’affari assoldate per sondare il mercato ipotizzano per la futura matricola una capitalizzazione di Borsa tra i 20 e i 40 miliari di dollari. In Europa, Cvc sarà una sorta di “unicorno”: non esistono grandi fondi quotati. C’è la svedese Eqt che però ha dimensioni regionali; e in Italia il caso “ibrido” della Tip di Gianni Tamburi. Negli Stati Uniti, invece, i colossi si sono quotati: da Kkr, il padre di tutti i private equity, fino a Tpg, ultimo dei grandi fondi a sbarcare in Borsa.

Una apparente contraddizione

Un private equity che si quota, però, pare uno snaturarsi, una contraddizione: i fondi stanno a monte della “filiera”. Sono capitali privati che comprano aziende per poi farle approdare in Borsa, sul mercato pubblico, come modo per monetizzare il loro investimento. Che il traghettatore diventi l’approdo suona come un corto circuito del mercato dei capitali.

È l’effetto della rivoluzione dal crack Lehman Brothers in poi. Il «decennio perduto» del risparmio, colpa dei tassi a zero, ha costretto tutti a cercare rendimenti altrove: il mercato, in senso allargato, ha così scoperto i cosiddetti «asset alternativi», più rischiosi ma anche più generosi, con in testa il private equity. Allo stesso tempo, il denaro facile regalato dalle banche centrali ha riempito di fieno le cascine dei fondi medesimi.

I due fenomeni, spiega Anna Gervasoni, direttore generale di Aifi, hanno fatto cambiare pelle al private equity: «I fondi più grandi sono diventati delle piattaforme, una fabbrica di prodotto». Dal punto di vista tecnico, poi, non si quota il “fondo” Cvc ma il gestore, la management company che fa da intermediario e che vende sul mercato una serie di prodotti, incluso il private equity: «È come se andasse in Borsa una banca o un grande asset manager» chiosa Gervasoni.

Più trasparenza al mondo dei fondi

Violando un «tabù» non scritto, Cvc farà anche bene al mondo dei fondi: finalmente arriva l’agognata trasparenza, e l’industria si scrollerà di dosso la trentennale nomea di «Barbari alle porte», che si trascina dai tempi della scalata alla Nabisco. Non è detto però che l’opacità sia sempre un male: i fondi da anni ormai battono sistematicamente le Borse, come rendimenti e capacità di attrazione.

Molte matricole hanno fatto saltare la quotazione perchè i fondi privati offrivano loro valutazioni più alte del mercato pubblico. Questo è possibile proprio perchè la riservatezza del «private» fa premio sulla trasparenza. Rimane in sospeso, poi, la domanda sul perchè un fondo come Cvc, che trabocca liquidità, senta la necessità di andare sul mercato, dove si va per raccogliere liquidità. Anche per questa anomalia la professoressa Gervasoni ha spiegazione: «La quotazione aiuta la successione, rende liquidabile l’investimento e facilita anche eventuali aggregazioni tra fondi».

Quotazione a Londra o Amsterdam?

Il caso di Cvc si porta dietro anche una coda ”politica:” il fondo starebbe valutando se snobbare Londra e andare a quotarsi alla Borsa di Amsterdam. Sarebbe alto tradimento della patria: se il “marchio” di punta della finanza anglosassone decidesse di quotarsi in Europa, per Lseg sarebbe uno smacco tremendo.

Per i critici della Brexit, sarebbe la dimostrazione che la piazza di Londra ha perso il suo appeal. City o Amsterdam, però, il vero problema per Cvc è un altro: il mercato globale è oggi asfittico. La raccolta di capitali, in questo primo scorcio del 2022, è crollata.

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