di Laura Leonelli
“Flippers” (1977-1978), di Olivo Barbieri. Courtesy Olivo Barbieri.
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Il primo è il tre, e non per qualche strano salto logico, ma perché fa tre la somma dei numeri dell'anno che vede l'annuncio ufficiale dell'invenzione della fotografia, il 1839. Sei, oltre a questo, volessimo un altro numero primo, allora potremmo aggiungere il sette gennaio, quando François Arago presentò all'Académie des Sciences l'invenzione di Louis Jacques Mandé Daguerre. Se poi volessimo fare la storia del giornalismo, avremmo un altro numero ancora, il sei, sempre di gennaio, giorno in cui la Gazette de France pubblicò in anteprima la notizia “di un prodigio che sconvolge tutte le teorie sulla luce e sull'ottica e promette di fare una rivoluzione”.
E in parte lo scoop rovinò la sorpresa. Tutto ciò per dire, e fu chiaro fin da quelle giornate d'inverno parigino, che la fotografia era anche una questione di numeri. Non soltanto i numeri del primato politico francese che sosteneva la scienza e la donava niente meno che al mondo, non solo i numeri delle formule che regolavano la chimica del processo fotografico, e non solo i minuti, lentissimi, necessari a imprimere le lastre, ma anche numeri più segreti, iniziatici, che fin dagli esordi si sono nascosti dentro alcune fotografie e che hanno fatto di tali immagini misteriche una collezione parallela a quella ufficiale. Una collezione che, visto il numero oggetto di festeggiamenti, vorremmo arrivasse a 100 per poi proseguire all'infinito.
La via è lunga e inizia su una delle strade americane più famose, la Road West, “the Road of Hope” come veniva chiamata, e la speranza, in piena depressione economica, era lasciarsi alle spalle la siccità, la polvere, la miseria, e incamminarsi verso occidente, verso la California, campi verdi, oceano, umidità, nuovo respiro. Dorothea Lange percorre la Road West nel 1938 e la ritrae a perdita d'occhio, un'invenzione geometrica, un triangolo che si assottiglia al vertice fino a diventare una linea, un singolo destino, il numero uno, la storia di una donna, di un uomo, che si fa strada nella storia grande di una nazione. Una storia come quella di Charlie Chaplin e Paulette Goddard che camminano mano nella mano nel finale di Tempi moderni, film del 1936. Sottraiamo un'unità e torniamo al 1935, l'anno in cui Gaston Wijns, fotografo e cineasta, partecipa al viaggio leggendario del Mercator, nave scuola della marina mercantile belga, in rotta verso l'isola di Pasqua. Tra i numeri che Wijns fotografa ci sono i tre alberi, le 15 vele, i 13 nodi della massima velocità e, volendo, le 41 traversate compiute dal 1932 al 1961, anno in cui il veliero viene ancorato al porto turistico di Ostenda.
Ma la cifra più intima, che soffia come il vento in questa magnifica immagine, oggi nella collezione di Caroline Markovic e della sua galleria L'Atelier d'Artistes , è il due: noi e il mare, noi marinai di ogni elemento e le forze della natura che ci governano e che tentiamo di governare. Noi e le tre parche, direbbe Rudolf Koppitz, noi e Parca che fila il destino della vita, Nona che lo assegna, Decima che lo taglia.
Prima che le figure in nero, sorprese in movimento dal celebre fotografo viennese nel 1925, decidano le nostre sorti, altre forbici scintillano nell'aria e tagliano e rimodellano la lingerie più libertina degli anni Trenta, quella di Diana Slip, immaginaria concorrente, perché in realtà era un uomo, di Yva Richard, lei invece autentica e magnifica signora dell'erotismo francese. Non sappiamo se sia stato Léon Vidal, editore delle Éditions la Gauloise e fondatore del marchio Diana Slip, a suggerire quei quattro nastri di seta che cambiano luce alla classica culotte e le infondono un'oscurità più fetish. Quel che è sicuro è che fu sua l'idea di chiamare grandi fotografi e, in tempi di crisi anche in Europa, risposero Brassaï, Jean Moral e Roger Schall. Tra le “curiosités très parisiennes” in catalogo, Diana Slip presentava anche giarrettiere, tute di chiffon, calze di seta, stivali a tacco altissimo e, naturalmente, guanti, neri, lunghi, di pelle, di pizzo, di raso, il peccato prima del guanto di Gilda, che numericamente parlando arriva otto anni dopo, nel 1946. Se sommiamo 1946 otteniamo due e se aggiungiamo tre, somma di 1938, anno della pubblicità di Diana Slip, otteniamo cinque. Siamo già alla prossima fotografia e sono le dita di una mano. Ancora un guanto.
Se fosse stato un antico cavaliere e non solo un collezionista che da tempo mette in dialogo la fotografia d'autore e quella di autori sconosciuti, Ettore Molinario avrebbe gettato a terra quello splendido guanto, immortalato verso il 1880, e avrebbe invitato a duello chiunque dubiti ancora oggi dell'importanza e della bellezza della photographie anonyme. Sicuramente quelle dita, così morbide nella pelle di capretto che le protegge e quel polso impreziosito da ricami su seta avrebbero lasciato un segno. A Janet Flanner e ai sei occhi che hanno reso caustico e pungente il suo sguardo, il piacere di scoprire dove.
11 foto
Nel 1927 Berenice Abbott aveva fotografato così la famosa corrispondente del New Yorker, che nel 1925 aveva spedito la sua prima Letter from Paris, inaugurando il genere del giornalismo narrativo e radunando intorno a sé la comunità degli expat americani, Ernest Hemingway, F. Scott Fitzgerald, Djuna Barnes, Gertrude Stein. Una regina a modo suo, amante delle donne, che all'amante italiana Natalia Danesi Murray aveva inviato per quarant'anni splendide missive. Ognuna iniziava così, Darlinghissima, e quello strano superlativo sarebbe stato perfetto anche per la ragazza tunisina ritratta da Lehnert & Landrock, vera principessa nella sua parure di sette gioielli. Darlinghissima è soprattutto la regina Elisabetta, nelle nove pose del celebre ritratto multiplo di Chris Levine. Numero magico, il nove, il più regale di tutti, visto che se moltiplicato per qualunque altro numero riconduce sempre a sé. Ma la regina nasconde un numero segreto, l'otto. E non semplicemente perché il ritratto è stato commissionato in occasione degli 800 anni dell'alleanza tra l'isola di Jersey e il Regno Unito, o perché risale al 2004, 2x4=8, ma perché otto sono i secondi durante i quali la macchina fotografica di Levine ha realizzato i 200 scatti necessari a trasformare un volto bidimensionale in un ologramma. Tra una sequenza e l'altra, The Queen si è riposata e immobile ha chiuso gli occhi. Il ritratto più intenso, divino, imperscrutabile che mai le sia stato fatto è questo, a occhi chiusi. Quando l'ha visto, Levine non ha esitato.
Anche Olivo Barbieri ha chiuso gli occhi aprendoli su un'altra dimensione della fotografia. E questo sguardo diverso e superiore perché più intuitivo e contemporaneo, in grado non di inventare il futuro, ma di vederlo affiorare tra le pieghe del presente, lo ha guidato fin dal suo primo lavoro, Flippers, realizzato tra il 1977 e il 1978. I numeri sono in sequenza, da uno a dieci, come se l'immagine fissa contenesse un dinamismo occulto, un'accelerazione verso altre dimensioni. Moltiplicando 10x10 avremmo già raggiunto i 100 anni di un secolo e tutto l'amore di Čajkovskij per l'Italia, “cento volte cara”. Ma la logica di Barbieri non segue quella del cuore né quella binaria dell'informatica, zero e uno, vero e falso, che addomestica la complessità e non considera la bellezza necessaria del caso. Tra i pezzi di vetro di un flipper distrutto, che è un modello di immaginario complesso, c'è spazio per il forse, il se, il ma, sillabe taglienti e pericolose perché fuori da ogni determinismo.
Oltre il dieci, che nella nostra memoria scolastica è il voto massimo e per gli esoterici rappresenta ugualmente la perfezione, ma anche l'eterno annullamento e il riavvio di tutte le cose, complice la somma di 1+0=1, i numeri corrono veloci. Sono le 12 facciate ossessive di Bernd e Hilla Becker e le 15 mele di Don McCullin – ma dovremmo dire 16, perché una è nascosta e sostiene le altre, e rappresenta l'invisibile che si cela in ogni immagine – e sono i 19 elefanti di Nick Brandt e le 43 modelle, una era la moglie, inquadrate da Ormond Gigli. E potremmo arrivare all'infinito, verso l'immagine di tutte le immagini, il mappamondo di Luigi Ghirri, se non fosse che i 62 narcisi di Horst P. Horst invitano a fermarci e a ricordare la paura che Sigmund Freud, senza motivo apparente, aveva per questo numero. Chissà se inconsciamente il padre della psicoanalisi avrà addomesticato tale fobia scegliendo il tre come numero ideale, 6:2=3, e dichiarando di possedere solo tre completi, solo tre cambi di biancheria e solo tre paia di scarpe?
Tre e siamo tornati alla somma di 1.839 che riassume i numeri di tutte le fotografie degli anni a venire. Yes yes yes, tre volte sì, leggiamo in chiusura dell'Ulisse di Joyce, di cui quest'anno ricorre il centenario. Yes yes yes, ripete insieme a Molly Bloom ogni grande fotografo quando sente che l'immagine ha preso forma, e ha i numeri giusti per esistere, perché, diceva Henri Cartier-Bresson, la differenza tra una grande fotografia e una fotografia mediocre è una questione di millimetri. Yes yes yes e, nonostante i dubbi, la fotografia è sempre una meravigliosa affermazione.
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