di Marcello Messori
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Se la Bce confermerà gli orientamenti espressi nella riunione di marzo, azzerando i suoi acquisti netti di titoli governativi, tornerà alla ribalta un problema che la coesistenza di politiche monetarie e fiscali ultra-espansive aveva confinato ai margini: la sostenibilità dei debiti pubblici nei Paesi dell’euro area (Ea) con forti squilibri di bilancio.
Durante le prime fasi della pandemia, la sospensione del Patto di stabilità e crescita ha consentito anche a tali Paesi di fronteggiare l’emergenza sanitaria, economica e sociale mediante l’erogazione di ingenti spese da parte dello Stato. Queste spese, pur causando forti aumenti nell’ammontare di debito pubblico, non hanno indotto problemi di sostenibilità grazie ai programmi di acquisto di titoli pubblici sui mercati finanziari secondari, attuati dalla Bce (o, per meglio dire, dall’eurosistema delle banche centrali). Tali programmi hanno offerto “reti di protezione” a maglie così strette che persino investitori finanziari prudenti hanno dato per scontato che i più problematici titoli pubblici dell’Ea, acquistati all’emissione, fossero poi trasferibili con vantaggio alla Bce. Potendosi rifinanziare presso la stessa Bce a tassi negativi, specie le banche dei Paesi più “fragili” dell’Ea hanno effettuato massicci acquisti di titoli pubblici nazionali, spesso a scadenza media o lunga, con tassi positivi anche se bassi; e, insieme ad altri intermediari finanziari, esse hanno realizzato plusvalenze grazie alla cessione alla Bce di una parte dei titoli pubblici in portafoglio in fasi favorevoli di mercato.
Ne è risultato che, ancor prima dello shock pandemico, l’accumulazione e lo scambio di titoli pubblici nazionali hanno generato ampi profitti per gli operatori finanziari di Paesi “fragili” dell’Ea. Inoltre, la quota sul totale di questi titoli detenuta da Bce, banche e assicurazioni ha raggiunto un’incidenza elevata. In Italia, alla fine del 2021, lo stock di debito pubblico nazionale era detenuto per circa il 27%, dalla Banca d’Italia e dalla Bce, per circa il 25% dal settore bancario e attività controllate e per poco meno del 15% da altre istituzioni finanziarie. Pertanto, più del 65% del debito pubblico italiano è – almeno indirettamente – “sterilizzato” rispetto alla volatilità dei mercati perché detenuto dai responsabili della politica monetaria o da operatori sottoposti a regolamentazione. Tali condizioni chiariscono perché i comportamenti della Bce abbiano potuto assicurare la sostenibilità di ingenti incrementi di debito pubblico. Prova ne sia che, nel 2021, anche l’Italia ha registrato tassi di crescita maggiori del tasso medio di interesse sul debito pubblico e ha, così, soddisfatto la condizione per graduali riequilibri del suo bilancio nazionale.
L’interrogativo è se la sostenibilità, mostrata dai crescenti debiti pubblici nel corso della pandemia (e negli anni precedenti), sarà minata dalla probabile chiusura dei programmi di acquisti netti da parte della Bce nel corso della prossima estate. Il rischio è che l’allentarsi delle reti di protezione spinga vari intermediari finanziari dei Paesi più “fragili” dell’Ea a ridurre, in misura massiccia, l’ammontare di titoli pubblici presenti nei loro bilanci. Nel caso, anche se la Bce mantenesse invariate le quote da essa detenute, cadrebbero i prezzi di mercato di questi titoli con perdite (almeno potenziali) per gli investitori; e la sostenibilità dei relativi debiti pubblici diventerebbe subordinata a tassi di inflazione così elevati da più che compensare gli aumenti nei tassi medi di interesse su quei debiti. Il timore di effetti a valanga spiega perché l’Italia e altri Paesi ad alto debito dell’Ea si oppongano alle condizioni, poste dai Paesi “centrali”, per costruire uno schema europeo di garanzia a favore dei piccoli depositanti nell’ambito dell’Unione bancaria: una diversificazione dei titoli pubblici nazionali detenuti dalle banche. Una tale diversificazione tenderebbe a innescare cessioni di titoli pubblici dei Paesi “fragili” da parte dei settori bancari nazionali.
Lo shock economico, causato dall’invasione russa dell’Ucraina, aumenta le preoccupazioni. Creando elevati aggravi finanziari nel breve-medio termine (incontrollabili rialzi nei prezzi dell’energia, di altre materie prime e di beni agricoli; costi infrastrutturali per la diversificazione degli approvvigionamenti; aumenti degli esborsi per la sicurezza; spese di accoglienza umanitaria e di inserimento dei rifugiati) e condizioni di forte incertezza e instabilità anche nel lungo termine, il nuovo e drammatico shock rischia di causare forti rallentamenti nella crescita e di richiedere un’ulteriore impennata nelle spese pubbliche nazionali dei Paesi dell’Ea. Pertanto, l’indebolimento delle reti di protezione, offerte dalla Bce, accresce le probabilità di stagflazione e di insostenibilità degli squilibri di bilancio nei Paesi “fragili” dell’Ea, ridando così centralità al problema dei debiti pubblici nazionali.
Al riguardo, Next Generation Eu (Ngeu) e i Piani nazionali di ripresa e resilienza (Pnrr) non offrono soluzioni sufficienti. L’attuazione dei Pnrr aumenta i debiti pubblici nazionali; essa impone, inoltre, ristrutturazioni dei processi produttivi che sono essenziali per lo sviluppo di medio-lungo termine, ma che possono frenare la crescita di breve termine in una fase di forte instabilità dovuta allo shock bellico.
Anche se il quadro è fosco, l’Unione europea non si trova in un vicolo senza uscita. Le sue istituzioni possono reagire alle rotture indotte dal nuovo shock. Si tratta innanzitutto di comprendere che, oggi, la risposta di politica economica non va incentrata su politiche monetarie ultra-espansive: anche se proseguisse gli acquisti netti di titoli pubblici, nel breve termine la Bce potrebbe allentare ma non più aggirare i “vincoli” alle politiche fiscali nazionali. Pertanto, nei prossimi anni di guerra fredda, l’espansione dei bilanci pubblici nei Paesi più “fragili” andrà limitata. Per salvaguardare una convergenza fra Paesi all’interno della Ue, la risposta allo shock bellico dovrà basarsi sul rafforzamento di quella capacità fiscale centrale già introdotta, in via temporanea, grazie a Ngeu. Nel nuovo quadro, questa capacità centrale è chiamata a finanziare la produzione di beni e servizi che richiedono uno sforzo comune e che permettono un’uscita comune dalle emergenze economiche e sociali causate dalla pandemia e dallo shock bellico.
La disponibilità di tali “beni pubblici” europei salvaguarderebbe la crescita dell’area, attenuerebbe le strozzature alla base di tensioni inflazionistiche, ridarebbe così spazi alle politiche monetarie e permetterebbe graduali ma significativi aggiustamenti nei bilanci nazionali dei Paesi ad alto debito.
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