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Putin nuovo pivot della geopolitica mediorientale

di Alberto Negri

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(EPA)

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6 ottobre 2017
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3' di lettura

La guerra di Siria, sul versante della geopolitica, forgia nuove alleanze. Chi ha perso la partita contro Bashar Assad, la Turchia e l’Arabia Saudita, sta già guardando oltre: questo è il senso della visita del monarca saudita Salman da Putin e di quella di Erdogan a Teheran da Hassan Rohani. In gioco tra Russia e Arabia Saudita ci sono gas e petrolio (la stabilizzazione dei prezzi con l’accordo tra Riad e Mosca), la cooperazione economica, in vista anche della mega privatizzazione dell’Aramco nel 2018, ma anche il tentativo da parte di Riad di trovare nuovi partner oltre agli americani.

La prova è che re Salman a Mosca si è rivolto esplicitamente a Putin per frenare “le interferenze” dell’Iran, il vero vincitore della guerra al Califfato insieme a Putin, che ha mantenuto e rafforzato l’asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah, esteso dal cuore della Mesopotamia al Mediterraneo.

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Lo stesso discorso dei sauditi vale per Erdogan che ha visto infrangersi i suoi ambiziosi piani di diventare il leader del mondo sunnita. Non solo non è riuscito ad abbattere Assad ma si è trovato in rotta di collisione con Mosca e Teheran, il pericolo del terrorismo jihadista in casa, insieme a milioni di profughi, mentre i curdi iracheni di Massud Barzani proclamavano l’indipendenza con un referendum.

Putin e gli ayatollah da avversari sul fronte siriano sono così diventati il puntello della sua fallimentare politica estera che ha messo a rischio le stesse frontiere turche. Tanto è vero che Erdogan ha chiesto a Iran e Iraq di unirsi alla Turchia per chiudere i rubinetti delle esportazioni petrolifere dei curdi di Erbil.

Erdogan, con la pessima collaborazione di alcune potenze occidentali e arabe, in questi anni è riuscito nel capolavoro strategico di portare la Turchia fuori dall’Europa e di farla rientrare in Medio Oriente dove l’aveva tirata fuori Ataturk.

Il vero problema mediorientale oggi non è più Assad ma Erdogan - del quale per altro russi e iraniani si fidano assai poco visti i precedenti - che è perennemente in frizione con gli alleati storici della Nato e gli europei oscillando come un pendolo tra Oriente e Occidente. L’altro nodo è la tenuta della monarchia saudita, impantanata nella guerra in Yemen, in rotta di collisione con una parte del mondo sunnita (Qatar e Turchia), con l’Iran sciita e alle prese con un primato nel Golfo che appare sempre più opaco. I sauditi devono rifarsi un’immagine internazionale compromessa dal sostegno di Riad ai movimenti radicali che hanno destabilizzato il Medio Oriente. È un’operazione complicata perché si incrocia con i progetti di riforma del regno mal digeriti dal clero wahabita, pilastro della legittimità religiosa dei custodi di Mecca e Medina.

Putin è diventato così un interlocutore ineludibile, una sorta di pivot del Medio Oriente, ascoltato da tutti, da Israele agli alleati iraniani, dagli ex nemici turchi ai sauditi. E questo accade mentre il presidente americano Donald Trump, seguendo i suoi impulsi irrazionali, vorrebbe stracciare l’accordo sul nucleare tra Iran e 5+1 del luglio 2015. Il ministro della Difesa, il generale James Mattis, sostenuto dal segretario Stato Rex Tillerson, frena e si oppone: Trump ha tempo fino al 15 ottobre per decidere se fare o meno un altro regalo ai suoi concorrenti.

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