di Gianni Castellaneta
(AFP)
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Gli ultimi dati relativi alla crescita economica negli Stati Uniti hanno sorpreso la maggior parte degli analisti: il fatto che la crescita del Pil nel terzo trimestre sia stata la più alta degli ultimi tre anni (3.3%) potrebbe lasciare a prima vista spiazzati, soprattutto per chi siede tra le fila dei detrattori della “Trumponomics”. Che cosa possiamo aspettare noi europei da questa performance positiva e quale impatto potranno avere sulla nostra economia le misure che la Casa Bianca sta cercando di mettere in atto?
Innanzitutto, va chiarito che il grande risultato ottenuto nel terzo trimestre (secondo consecutivo in cui la crescita del Pil ha superato il 3%) è stato “gonfiato” in misura non trascurabile dai massicci investimenti in scorte di beni, che le imprese contano di vendere nei prossimi mesi in conseguenza di un previsto aumento dei consumi. La crescita depurata da questo fattore ammonta “solo” al 2,5%: si tratta comunque di un tasso di crescita davvero invidiabile per le più grandi economie europee, che stentano a superare il 2% annuo (ad eccezione della Spagna che non ha però caratteristiche e dimensioni paragonabili agli Stati Uniti).
Quanto merito hanno le misure di Trump nel mantenere l’economia statunitense robusta e in grado di crescere rapidamente? In realtà si tratta di un impatto modesto, anche in ragione della carenza di interventi di politica economica adottati finora da questa amministrazione.
Tuttavia, il governo ha ottenuto pochi giorni fa un risultato fondamentale, incassando l’approvazione da parte del Senato dell’ambiziosa riforma del sistema fiscale che abbasserà le tasse sulle imprese dal 35% al 20% del reddito prodotto e ridurrà le imposte sul reddito delle persone fisiche, beneficiando però i cittadini più ricchi. Secondo il Segretario al Tesoro Mnuchin la riforma garantirebbe una crescita stabile del Pil nell’ordine di almeno il 3%; invece, altre stime indipendenti sostengono che l’impatto sarebbe estremamente limitato (un misero +0,8% del Pil nell’arco dei prossimi dieci anni). La “minaccia” di tale misura – il primo vero successo politico interno di Donald Trump - per l’Ue consiste nel rischio di innescare una “race to the bottom” che un drastico abbassamento della pressione fiscale negli Usa potrebbe generare: il Regno Unito potrebbe prendere in considerazione di seguire questo esempio come politica post-Brexit volta a mantenere e ad attrarre nuovi investimenti. L’Unione Europea si troverebbe in difficoltà, impossibilitata ad agire con una sola voce in tema di tassazione.
Un argomento collegato è quello dell’economia digitale e al regime fiscale da adottare nei confronti delle imprese che operano in questo campo. È noto a tutti il dibattito che l’Ue ha sviluppato al suo interno negli ultimi mesi sull’opportunità di varare una “web tax”, preceduta da una “fuga in avanti” dell’Italia che nella legge di Bilancio appena licenziata dal Senato ha deciso di introdurre – ma solo a partire dal 2019 – una tassa pari al 6% dei ricavi prodotti dalle grandi aziende digitali.
Si tratta di un approccio diametralmente opposto da quello statunitense e che potrebbe essere controproducente per gli investimenti effettuati nel nostro continente da grandi multinazionali come Google o Amazon. Diversa è anche la sensibilità delle due sponde dell’Atlantico nei confronti della regolamentazione sulla gestione dei dati elettronici. A maggio 2018 entrerà in funzione il Regolamento generale europeo sulla protezione dei dati, a cui tutte le imprese si dovranno adeguare e che richiederà l’adozione rapida delle più moderne tecnologie digitali da parte delle aziende. Se da un lato la spinta per un migliore rispetto della privacy può fornire uno stimolo utile all’innovazione per il nostro sistema imprenditoriale, dall’altro la diversa sensibilità tra Europa e Usa (più inclini a lasciare maggiore libertà al settore privato) potrebbe causare un ulteriore motivo di allontanamento fra le due sponde.
Fa discutere anche la strategia di Trump in tema di politica commerciale. Nelle scorse settimane il Presidente è stato in Asia per una lunghissima visita (la più estesa dai tempi di Bush padre) durante la quale, al netto delle consuete gaffes e della scarsa diplomazia messa in atto, il denominatore comune è stato quello di un approccio prevalentemente bilaterale, volto a tutelare in primo luogo gli interessi economici degli Stati Uniti. Una strategia che cerca di riequilibrare il pesante deficit commerciale di Washington con il resto del mondo (600 miliardi di dollari a livello globale, di cui 50 con il solo Giappone), ma di cui non si riescono ancora a percepire le mosse tattiche. Il Presidente ha deciso di rallentare le trattative per un accordo commerciale con la Cina e ha confermato la volontà di rimanere fuori dalla Trans-Pacific Partnership, che Tokyo vorrebbe invece rilanciare proprio in funzione difensiva nei confronti di Pechino. Inoltre, gli USA non fanno parte della Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), iniziativa che evidenzia il grande dinamismo cinese e che sarà funzionale all’espansione nel Pacifico ma anche verso Ovest con la nuova Via della Seta. L’isolamento statunitense rischia in questo caso di essere controproducente, e anche in questo caso non consentirà di agire di concerto con l’Ue, che al di là di una diffusa preoccupazione nei confronti delle pratiche “predatorie” di Pechino in tema di export e investimenti, procede con decisione la sua strategia di apertura agli scambi con la ratifica dell’accordo CETA con il Canada, la conclusione dell’Economic Partnership Agreement con il Giappone, e i negoziati in fase avanzata con i Paesi sudamericani del Mercosur.
In conclusione, l’economia americana è ancora dominante e continuerà a crescere, sostenuta anche da politiche monetarie che rimarranno accomodanti nei prossimi anni: il nuovo Governatore della Federal Reserve Powell non dovrebbe discostarsi troppo dalla linea della Yellen. Tuttavia, i nuovi scandali che si stanno addensando attorno a Trump dopo le scomode confessioni di Michael Flynn potrebbero aumentare l’incertezza politica e tradursi in instabilità finanziaria a Wall Street: gli esiti dell’inchiesta Mueller sono al momento imprevedibili e i “rally” della Borsa sono dietro l’angolo. Inoltre, la bassa efficacia dei piani di Trump – scarsa implementazione e limitata visione strategica – potrebbe danneggiare gli Usa nel medio periodo. Di riflesso, l’Ue potrebbe risentirne negativamente in termini di riduzione degli scambi o degli investimenti in arrivo dall’altro lato dell’Atlantico. Regolamentazioni più flessibili e una burocrazia tradizionalmente più snella potrebbero invece mantenere un clima positivo per le nostre aziende interessate ad investire negli Usa, soprattutto nel settore delle infrastrutture che Trump punta a rilanciare. Comunque, una resurrezione del TTIP è in questo momento impensabile: meglio faremmo dunque a proseguire nella diversificazione delle nostre rotte economiche mentre cerchiamo di mantenere la partnership con Washington la più salda possibile.
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