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Dalla Cop26 piccoli passi per l’uscita dal carbone

di Gianluca Di Donfrancesco

La Finanza mondiale promette 100mila miliardi per il clima. Ma i conti rischiano di non tornare

Il gruppo si allarga a Polonia e Indonesia, ma restano fuori Cina, India e Usa. L’Italia firma in extremis l’intesa sullo stop ai sussidi all’estero alle fonti fossili

4 novembre 2021
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3' di lettura

C’è la Polonia, ma mancano Cina e India, come pure Stati Uniti, Giappone e Australia. Resta allora davvero molta la strada da fare per «consegnare il carbone alla storia», una delle aspirazioni della Cop26 di Glasgow. Il carbone è il maggior responsabile del cambiamento climatico. Farne a meno è ritenuto fondamentale per frenare l’aumento delle temperature, ma dirlo è molto più facile che farlo, soprattutto per Paesi che hanno ancora una forte dipendenza dalla più sporca delle fonti fossili.

Le nuove entrate

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Il Governo di Boris Johnson, padrone di casa della Cop26, ha annunciato con grande enfasi che sono ora 77 i soggetti ad aver sottoscritto un patto per eliminarlo, inclusi 46 Paesi: significa spegnere le centrali a carbone e smettere di costruirne altre nel giro di 10-20 anni. Si parla degli impianti sprovvisti dei costosi sistemi di cattura e stoccaggio (Ccs) della CO2.

I nuovi soci del club sono una trentina, compresi Ucraina, Vietnam, Cile, Corea del Sud. C’è anche la Polonia e non è un passaggio da poco per il Green Deal dell’Unione Europea. Varsavia è il partner più ostico da convincere. Nel 2020, le sue centrali a carbone hanno generato il 70% dell’elettricità prodotta nel Paese. Il Governo si è rassegnato a fissare al 2049 la data di chiusura delle miniere, che impiegano in modo diretto circa 80mila persone e altrettante nell’indotto. Un portavoce dell’Esecutivo ha affermato che l’abbandono del carbone non avverrà prima del 2040.

C’è anche l’Indonesia: il ministro delle Finanze, Sri Mulyani Indrawati, ha ricordato che i Paesi emergenti hanno bisogno di assistenza finanziaria per accelerare l’uscita dal carbone. Jakarta è il più grande esportatore di carbone, dal quale ricava il 65% della sua energia.

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I grandi assenti

I maggiori consumatori al mondo restano però fuori dal patto. A cominciare da Cina e India, che ospitano quasi la metà degli impianti a carbone attivi o in costruzione in tutto il mondo. Pechino si è impegnata a fermare i finanziamenti di centrali all’estero. Ma non in casa, dove la crisi energetica e la fame di crescita economica la costringe anzi ad aumentare l’estrazione. Il carbone rappresenta il 60% della produzione di energia della Cina, che ha in costruzione 95 centrali, con sei volte la capacità operativa di tutta la Germania.

L’India è in una situazione analoga: il carbone rappresenta circa il 44% del mix energetico, con 28 centrali in costruzione e annunciate.

All’appello mancano, però, anche gli Usa. Il presidente Joe Biden sta provando con fatica a far passare i propri piani per il clima, dopo i passi indietro del suo predecessore, Donald Trump, che avrebbe voluto dare nuova vita alle miniere. E però, anche durante la sua Amministrazione, il peso del carbone è sceso, fino ad arrivare al 19% del mix energetico nel 2020, ai minimi da 50 anni e il 60% in meno rispetto al picco del 2007.

Lo stop ai sussidi con l’imbarazzo dell’Italia

Giovedì 4 novembre è stata siglata un’altra dichiarazione, che prevede lo stop entro la fine del 2022 a «nuovi sussidi pubblici al settore internazionale dell’energia da combustibili fossili» senza tecnologie di cattura e stoccaggio. La dichiarazione conta 25 firmatari. La sigla dell’Italia, inizialmente assente dall’elenco pubblicato dalla presidenza britannica della Cop, è arrivata dopo forti imbarazzi all’interno del Governo e nei rapporti con Londra.

Per Luca Bergamaschi, direttore del think tank Ecco, «è una notizia molto gradita, che invia un segnale forte della necessità di spostare la politica estera e la cooperazione italiana dai combustibili fossili, compreso il gas, all’energia pulita. Questo è un mandato forte anche per una trasformazione più rapida delle società controllate dallo Stato ancora attive nel business di gas e petrolio, in particolare Eni, Saipem e Snam». «Mettere fine ai sussidi ambientalmente dannosi forniti dall’Italia fuori dai confini è un ottimo segnale», scrivono Greenpeace, Legambiente e Wwf. «Speriamo - continuano - si traduca nella definizione di una roadmap per la loro progressiva cancellazione entro il 2030 anche nel nostro Paese. Ancora oggi ammontano a 17,7 miliardi di euro».

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