di Valentina Melis e Serena Uccello
Parità salariale: più trasparenza e sgravi contributivi fino a 50mila euro per battere i divari
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Marginale nei contratti ma così dentro nella mentalità diffusa da essere dato quasi per scontato in fase di selezione. È il gender pay gap secondo quanto emerge, da un lato, da un progetto del Cnel, e, dall’altro, da una ricerca di Jobtech.
Il progetto targato Cnel, che ci permette di aprire una finestra su quanto accade nei contratti, è un progetto europeo che si chiama Colbar, acronimo di «Europe-wide analyses of Collective Bargaining agreements», avviato nel 2019 e concluso in questi giorni, dopo essere stato approvato dal Directorate general for Employment, social affairs and inclusion della Commissione Europea, che ha finanziato l’iniziativa nell’ambito del Programma relativo alle Relazioni industriali e al Dialogo sociale (Vs/2019/0077).
Questo progetto contempla la costruzione di un database europeo di 600 contratti collettivi nazionali, l’analisi degli stessi attraverso uno schema di codifica degli istituti contrattuali e lo studio in chiave comparativa dei sistemi di relazioni industriali, a partire dalla contrattazione su elementi chiave come salario, orario di lavoro, diritti, organizzazione del lavoro, forme di previdenza integrativa e assistenza sanitaria. A questa iniziativa il Cnel ha partecipato con l’analisi di 90 contratti di lavoro italiani, per il 67% provenienti dal settore privato.
Dunque emerge che solo un contratto su due dei contratti collettivi di lavoro prevede una clausola sulle pari opportunità (48%). Il tema della conciliazione risulta ancora marginale: il 98% dei contratti presenta, infatti, sì clausole sui diritti parentali, ma il diritto alla paternità (inteso come diritto diverso dal semplice esercizio del congedo parentale/congedo di maternità in assenza della madre) è meno diffuso (39%). E se c’è ampio spazio per la sicurezza sociale (fondi disabilità, sostegno alla disoccupazione) prevista dal 92% delle intese, così come per la tutela della salute - il 96% presenta clausole su malattia/infortunio e l’88% specifica la retribuzione riconosciuta durante il periodo di congedo, mentre il 67% regolamenta una forma di assistenza sanitaria finanziata dal datore di lavoro - non viene invece rilevato nulla sul fronte della conciliazione lavoro-famiglia.
Un’istantanea della società, questa, che in effetti risulta coerente con quanto registrato da Jobtech, un’agenzia specializzata per il lavoro digitale, che ha chiesto a un panel di mille utenti alla ricerca di un lavoro in quanti sentissero il problema sulla loro pelle, e quale fosse il livello di fiducia nella legge sulla parità salariale (la 162/2021). È risultato che per il 34% la disparità salariale tra uomini e donne è una prassi comune, mentre è accaduta almeno una volta nell’esperienza del 22% del campione. Queste percentuali, però, salgono al 37% e al 25,5% se si isolano le risposte delle donne. Gli uomini, di contro, negano (mai capitato al 45,7%) o non sanno (32,3%).
«Questo genere di dato rappresenta, inoltre, una evidente cartina di tornasole per capire la storicità del fenomeno: questa percentuale sale al 38% tra i millennials - tra i 25 e i 40 anni - e fino al 41% tra gli appartenenti alla Generazione X (41-55 anni). Oltretutto, è interessante notare che il problema è più sentito proprio laddove si lavori in contesti a maggioranza femminile - qui sale al 42 per cento», si legge nello studio. Come a dire che il soffitto di cristallo sembra esistere anche dove al lavoro ci sono più donne che uomini. Tuttavia, nonostante il quadro negativo, «il 52% di chi cerca lavoro ha fiducia nella nuova legge, ma non sa quando e come si applicherà nelle aziende italiane. Non cambierà nulla solo per l’11% del campione».
Serena Uccello
vicecaposervizio
Valentina Melis
redattore
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