di Sergio Fabbrini
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L’aggressione russa dell’Ucraina ha accelerato la discussione sull’allargamento dell’Unione europea (Ue). L’11 marzo scorso, il Consiglio europeo ha chiesto alla Commissione europea di predisporre la complessa procedura che potrebbe condurre all’entrata dell’Ucraina nell’Ue, insieme alla Moldavia e alla Georgia. La richiesta è sostenuta dalla larga maggioranza del Parlamento europeo, da tutti i governi dell’Europa dell’est, oltre che da alcuni governi dell'Europa dell'ovest (tra cui il nostro). In un momento così drammatico per l’Ucraina, la prospettiva della partecipazione di quest’ultima all’Ue costituisce un asset di grande importanza, sia sul piano simbolico che materiale. Un asset per l’Ucraina, ma lo è anche per l’Ue? Vediamo.
L’Ue è il risultato di un processo di allargamento continuo, essendo passata dai sei stati membri fondatori del 1957 agli attuali 27 (la Croazia è stato l'ultimo Paese ad entrare nel 2013)
Nonostante nel 2020 il Regno Unito abbia lasciato l’Ue, sono molti i Paesi che chiedono invece di farne parte. Come il Montenegro (dal 2012), la Serbia (dal 2014), l’Albania e la Macedonia del Nord (dal 2020), la Turchia (addirittura dal 2005, con fasi alterne di stop and go), mentre la Bosnia-Erzegovina ha presentato domanda nel 2016. Fare parte dell’Ue non è però semplice. L’Articolo 49 del Trattato sull’Ue (Tue) stabilisce una procedura complessa. Il Consiglio europeo dei capi di governo nazionali decide se accettare o meno la richiesta del Paese richiedente. Se l’accetta, quest’ultimo diventa un Paese-candidato che, in quanto tale, sarà tenuto a rispettare i cosiddetti “criteri di Copenaghen” (stabiliti da un Consiglio europeo tenutosi in quella città nel 1993). Tali criteri richiedono che il Paese-candidato, per entrare a pieno titolo nell’Ue, sia dotato di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia e lo stato di diritto (così come definiti dai Trattati), disponga di un’economia di mercato funzionante, abbia adeguato la propria legislazione nazionale all’enorme acquis communautaire (cioè all’insieme di norme, obbligazioni e condizioni) che accomuna gli stati membri dell’Ue. L’avvicinamento al rispetto di quei criteri viene monitorato dalla Commissione europea e dai suoi servizi tecnico-giuridici. La soddisfazione di quei criteri richiede tempo. L’ultimo grande allargamento (ai Paesi dell’est dell’Europa) è avvenuto tra il 2004-2007, quindici anni dopo la fine della Guerra Fredda (1991).
L’allargamento ha rappresentato il principale strumento di politica estera dell’Ue, in sostituzione di una vera politica estera. La prospettiva di aderire all’Ue (e di beneficiare del suo grande mercato interno) ha incentivato la stabilizzazione politica dei Paesi-candidati, oltre che la loro apertura economica. Attraverso i vari allargamenti, in particolare quelli del 2004 e 2007, è stato possibile ricomporre la frattura ideologica tra l’Europa orientale e occidentale, rendendo entrambe più sicure. Tuttavia, i vari allargamenti hanno creato anche non pochi problemi all’Ue. Hanno aumentato la disomogeneità interna all’Ue, relativamente alle finalità dell’integrazione europea. Se l’Ue era nata per addomesticare le sovranità nazionali, gli stati entrati nel 2004-2007 volevano piuttosto rafforzare la loro sovranità nazionale. Dopo tutto, avevano da poco recuperato quest’ultima, a lungo inculcata dall’Unione Sovietica. Di qui, la loro difficoltà crescente ad accettare il progetto europeo di un’unione “sempre più stretta”, spingendo invece per un’unione “sempre più larga” (come è proprio di un’organizzazione internazionale). In vari paesi dell’Europa centrale e orientale si sono affermate maggioranze elettorali insensibili allo stato di diritto, all’indipendenza della magistratura, alla libertà e pluralismo della stampa, o alla trasparenza amministrativa, così come tali valori sono celebrati nei Trattati dell’Ue. La disomogeneità tra gli stati non è un problema, se essi condividono i valori che li tengono insieme. Ma lo diventa quando quella condivisione non c’è. Infatti, l’appartenenza all’Ue implica la partecipazione del nuovo stato a tutte le istituzioni di quest’ultima. Potrà avere i suoi rappresentanti nel Parlamento europeo, proporre un suo commissario, partecipare con i suoi ministri al Consiglio e con il proprio capo di governo al Consiglio europeo (dove le decisioni vengono prese all’unanimità), oltre che proporre i propri rappresentanti per i vari organismi giuridici e tecnici su cui si struttura il funzionamento dell’Ue. Tant’è che più la disomogeneità tra gli stati è cresciuta, più si è ricorsi alle istituzioni intergovernative (come il Consiglio europeo) per tenerla sotto controllo. La combinazione di disomogeneità politica e logica intergovernativa ha finito per generare soluzioni che hanno rafforzato il coordinamento intergovernativo, piuttosto che la capacità delle istituzioni sovranazionali. Soluzioni destinate, a loro volta, a generare nuovi problemi.
Insomma, con gli allargamenti, l’Ue ha risolto i problemi al suo esterno, al prezzo di creare problemi al proprio interno. Non avverrebbe diversamente con l’allargamento all’Ucraina, che vuole entrare nell’Ue per proteggere (legittimamente) la propria sovranità, mentre l’Ue deve ridimensionare le sovranità nazional per poter funzionare. C’è un’alternativa allo schema binario “dentro oppure fuori (l’Ue)” che imprigiona il nostro modo di pensare? È necessario pensare a forme diverse di integrazione, se si vuole risolvere il dilemma dell’allargamento. Il pluralismo europeo non può essere contenuto in un unico modello.
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