di Angelo Flaccavento
Dior AI 22-23
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Il clima internazionale è teso, sconfortante, ma la moda, appena tornata in presenza, non rallenta, comprensibilmente. Questa è un’industria che produce sogni e fatturati, insieme sventata e concreta: arrestarla non avrebbe alcun senso o effetto reale, anche se degli aspetti più sciocchi e mediatici del circo si farebbe volentieri a meno. L'azione si sposta adesso a Parigi, con i designer presi e compresi, ciascuno, nella sua personale narrativa.
Da Dior, Maria Grazia Chiuri ha da tempo rinunciato agli slogan facili e alla politica preconfezionata, ma non allo zelo femminista che ha consustanziato alla identità della maison. Il messaggio è adesso spostato sui set, sviluppati in collaborazione con artiste ogni volta diverse, mentre l'estetica delle collezioni reitera un modello, se non lezioso, decisamente perbenista. A questo giro il colpo d'occhio dello spazio scenico è imponente: la stanza intera, foderata di velluto rosso cupo, è una quadreria fitta fitta di ritratti femminili con gli occhi raddoppiati - distorsioni fotografiche di dipinti classici che sono parte dell'immaginario collettivo - opera dell'artista Mariella Bettineschi.
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L'effetto è straniante: gli osservatori diventano osservati, sottoposti a sguardi che sono enigmatici, inquisitori, non diversi dalle occhiate che le donne, troppo a lungo, hanno dovuto subire (la riflessione di Bettineschi, in sintesi, così si riassume). In questo spazio sontuoso e vagamente surreale muove una collezione dall'anima doppia, che affianca alle usuali silhouette fiorite, preziose, piene di grazia, una serie di interpretazioni funzionali delle stesse, con corpetti protettivi e spallacci riscaldanti sviluppati in collaborazione con D-Air Lab. È un Dior si direbbe robotico quello che ne viene fuori, quasi che la madamina di sempre si fosse ritrovata centaura. È uno scarto in avanti che fa pensare, ma che lascia desiderosi di piú, perchè a metà show, si ritorna al solito.
Off-White (Photo by JULIEN DE ROSA / AFP)
Da Off-White la commemorazione del compianto Virgil Abloh, mente e motore del progetto nonché ragione del suo stellare successo, si materializza in una ricapitolazione grandiosa di codici invero alquanto vaghi e deraglianti, fermi solo nella tendenza al campionamento e al collage. Classificare il lavoro di Abloh andando oltre la sua abilità di comunicatore è sempre stato difficile, e questa prova postuma, con gli abiti da ballo postmoderni, lo streetwear concettualizzato e una visione di femminilità forzatamente modernista, ne è la riprova: manca un racconto, e resta solo la randomness.
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Nessun deragliare, anzi una precisione tagliente e seducente da Saint-Laurent, dove Anthony Vaccarello segna un deciso passo avanti maturando dalle mini sfrontate sui tacchi a spillo a sofisticherie e languori neo-deco, sempre sui tacchi a spillo - quelli sono un tratto di Dna. Le silhouette allungate e fluttuanti, con le sottovesti trasparenti sotto i cappotti spessi e pesanti emanano un’eleganza molto francese e molto Saint-Laurent, senza nostalgie. La donna di riferimento, nel mentre, matura, e il codice si amplia.
Volant e tocchi fetish si mescolano liberamente da Koché, dove la formula che unisce preziosismo e abrasione continua a reiterarsi, mentre da Ottolinger è tutto un arrotolarsi e intrusciarsi di strati e di lacci e di brandelli che esaltano e strizzano ogni curva. Primitivista, selvaggia e metropolitana, la visione convince.
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