di Roberto Galullo
(ANSA)
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L’insegnamento investigativo del «grande amico» dell’Fbi Giovanni Falcone – secondo il quale per scoprire la mafia bisogna seguire i soldi – continua a vivere nel Federal bureau of investigation.
Venticinque anni dopo la strage di Capaci – nella quale perse la vita con la moglie e tre degli uomini della scorta – a spiegare al Sole 24 ore l’attualità del “metodo Falcone” è Kieran L.Ramsey, addetto legale dell’Fbi a Roma. «L’Fbi ha utilizzato il metodo Falcone – afferma Ramsey – coniugandolo a una varietà di metodi e strumenti investigativi per colpire in modo efficace tutti i gruppi di criminalità organizzata transnazionale. Seguire il denaro attraverso il ricorso a leggi potenti contro il riciclaggio e la confisca dei beni, consente all’Fbi di sottrarre alla criminalità organizzata la capacità di condurre e trarre profitto da attività illegali».
Un metodo che a distanza di 25 anni è stato perfezionato e permette oggi all’Fbi di contrastare il nemico in casa. «Cosa nostra negli Stati Uniti – conclude il ragionamento Ramsey, che svela come oggi una priorità del Federal bureau è la lotta alla ‘ndrangheta – negli ultimi anni non è cambiata in modo significativo. Il numero degli affiliati è rimasto sostanzialmente invariato e Cosa nostra continua a utilizzare i proventi di reato in una varietà di modi per tentare di mascherare e legittimare falsamente le origini illecite».
Venticinque anni dopo
Cosa nostra è cambiata e lo ha fatto per tenere fede al proprio codice genetico, in grado di evolvere e anticipare le mosse dello Stato. Perché anche di Stato vive. Questi 25 anni cristallizzano e sospendono l’auspicio di Falcone, secondo il quale la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine.
Ecco, 25 anni dopo siamo ancora alla fase evolutiva, lunga, lunghissima e forse, questa sì, senza una fine. Eppure, in questo periodo, i grandi capi di Cosa nostra – tranne Matteo Messina Denaro – che mettevano le bombe, sono tutti in galera condannati all’ergastolo, sono state scoperte centrali del riciclaggio, sono stati svelati immensi traffici di droga, sono state portate alla luce e condannate collusioni politiche. Certo, alcuni boss stanno lasciando pericolosamente le patrie galere, con tutti i rischi. Proprio ieri, è stato ucciso il boss Giuseppe Dainotti, scarcerato nel 2014.
In questi 25 anni è cambiato il mondo, con eventi di portata storica e come afferma al Sole 24 Ore il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, che fu tra i pochi a condividere con Falcone e Paolo Borsellino amicizia, passione e metodo di lavoro, «la crisi economica ha avuto ripercussioni nella mafia tradizionale, ma nello stesso tempo le componenti più dinamiche della mafia hanno capito che è finito il tempo della Prima Repubblica e, cavalcando in modo spregiudicato la nuova cultura del mercato, si sono riconvertite in agenzie che soprattutto nei territori del Centro-Nord offrono sul libero mercato beni e servizi illegali per i quali, soprattutto dopo la globalizzazione, è esplosa una domanda di massa alimentata da migliaia e migliaia di cittadini normali che chiedono droga, prostituzione, gioco d’azzardo, tabacchi detassati, beni contraffatti e, da parte delle imprese, servizi che contribuiscono ad abbattere i costi d’impresa».
Questa nuova mafia silente e mercatista – che si conforma totalmente alle logiche liberiste del mercato, senza adottare alcuna contromisura protezionistica – sta cambiando il rapporto con il territorio perché non gioca con la violenza, ma offre sul libero mercato beni e servizi che vengono richiesti sul territorio e con esso stabilisce un rapporto collusivo. «La cosa più grave – continua Scarpinato – è che questa mafia mercatista alimenta un flusso monetario che è stato sdoganato culturalmente perché la Ue ha deciso che dal 2014 in poi per calcolare il Pil della Ue bisogna computare anche i fatturati dal traffico della droga e della prostituzione perché si tratta dal punto di vista macroeconomico di prestazione di servizi e fornitura di beni a fronte dei quali c’è una controprestazione monetaria che incrementa il ciclo economico».
Il superboss latitante Messina Denaro
In questi 25 anni “Sua latitanza” da Castelvetrano, Matteo Messina Denaro, in chissà quale eremo, il 26 aprile ha compiuto 55 anni, gran parte dei quali trascorsi nella clandestinità mafiosa. Mai come in questo anniversario delle stragi di Capaci e via D’Amelio il suo fantasma aleggia sul futuro di Cosa nostra e – di conseguenza – su quella quota parte di misteriosa evoluzione criminale. Proprio su quest’ultimo aspetto si concentrano le attenzioni di investigatori e inquirenti che stanno lavorando da tempo a un’ipotesi. Le carte sui tavoli delle procure riportano le lancette indietro di dieci anni.
In quel periodo Messina Denaro avrebbe dato vita – con alcuni fuoriusciti da obbedienze massoniche – alla loggia coperta e itinerante “La Sicilia”, nata “per” la segretezza e “nella” segretezza. La convinzione del boss trapanese è che bisogna rafforzare quella tela che finora lo ha protetto a dispetto di ogni tentativo di scovarlo, separando il piano della criminalità mafiosa da quello della borghesia professionale, imprenditoriale e politica per trarre benefici senza intralci burocratici. Questa superloggia politica, per ordine espresso di Messina Denaro, deve affiliare in tutta la regione solo imprenditori, ingegneri, architetti, avvocati, commercialisti e professionisti in generale, membri della polizia giudiziaria e – molto verosimilmente – magistrati e giudici. Oltre che pochissimi politici fidati e amministratori locali al servizio.
Portafogli più poveri
L’attacco ai patrimoni illeciti – a dispetto di un farraginoso funzionamento dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati e nonostante che tra un sequestro e una confisca possano trascorrere fino a 17 anni, distruggendo così il valore dell’impresa o dell’immobile sottratto – è uno degli strumenti da esaltare. Basti pensare che dal 1992 a fine 2016 a Cosa nostra sono stati sequestrati dalla Dia beni mobili e immobili per oltre 11,6 miliardi e confiscati beni per oltre 4,7 miliardi. Senza contare l’attività omologa della Gdf. Nel quinquennio 2012/2016 i provvedimenti di sequestro hanno raggiunto un valore complessivo di oltre 2,6 miliardi e quelli di confisca di oltre 1,4 miliardi. Al 30 settembre 2015, l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alle mafie in Sicilia conta 6.916 beni immobili (3.947 destinati, 2.852 in gestione, e 117 usciti dalla gestione statale) e 553 aziende in gestione (280 sono uscite dalla gestione statale).
Il volto della corruzione
Cosa nostra è cambiata anche perché ha raffinato il volto del nuovo millennio: la corruzione. Nel suo intervento del 2 marzo 2016 in Commissione parlamentare antimafia, il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Franco Roberti, ha posto, non a caso, l’accento sul fatto che «quando la corruzione si incrocia con la mafia, diventa un reato devastante» perché «è risibile considerare il 416 bis solo un reato contro l’ordine pubblico, mentre dovrebbe essere concepito come (...) un reato contro la personalità dello Stato, contro gli assetti democratici del nostro Paese». «La Corte di Cassazione – aggiunge Scarpinato – ha avuto grave difficoltà ad applicare il 416 bis alla cosiddetta mafia silente che non usa il metodo violento di intimidazione sul territorio».
Che la mafia siciliana sia una continua evoluzione che ruota intorno a una universale complicità, lo capisci da quel che lo Stato dice in ogni occasione in cui può metterlo nero su bianco. Come, a febbraio, ha fatto il direttore della Dia, Nunzio Antonio Ferla, che nella relazione sul primo semestre 2016 inviata al Parlamento, sottoscrive che «in molti casi le indagini hanno evidenziato anche l’attivismo di una vasta area grigia – composta da imprenditori, professionisti, esponenti della politica o pubblici funzionari – che concorre, con diversi gradi d’intenzionalità specifica, al successo delle strategie mafiose».
Roberto Galullo
caporedattore-inviato
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