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8 marzo: il lavoro resta il grande tradimento per la questione femminile in Italia

di Chiara Di Cristofaro, Manuela Perrone

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ILLUSTRAZIONE DI LUCREZIA VIPERINA

ILLUSTRAZIONE DI LUCREZIA VIPERINA

Nel nostro Paese ha una occupazione solo una donna su due. Tra le lavoratrici meno contratti stabili, più part-time e precarietà. Gli effetti si fanno sentire su reddito (nel settore privato il gender pay gap è del 16,5%) e pensioni (solo il 44% del totale)

8 marzo 2023
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4' di lettura

Come l’elefante nella stanza, il lavoro retribuito delle donne è il nodo del sistema economico e sociale italiano che tutti conoscono ma che si fa finta di non vedere. La metà delle donne non lavora e, se lavora, lo fa in condizioni di maggiore precarietà e con minori retribuzioni rispetto agli uomini. Ci si accontenta di qualche lieve fluttuazione per consolarsi e sperare. Gli ultimi dati dell’Istat, ad esempio: a gennaio del 2023 l’occupazione femminile è cresciuta dello 0,2% rispetto a dicembre e dell’1,6% rispetto allo stesso mese di un anno fa. Ma in un mercato del lavoro che secondo le statistiche è il migliore da trent’anni (o da sempre), le italiane arrancano, ancora, ben più di un passo indietro rispetto alla media europea. Le occupate sono arrivate sì a 9,87 milioni (più dei 9,77 milioni del 2019, recuperando lo shock del Covid), ma sono soltanto il 51,9% delle donne tra i 15 e i 64 anni, contro il 69,7% degli uomini. Con grandi differenze territoriali da Nord a Sud.

Il tasso di occupazione femminile è sicuramente migliorato rispetto alla fase più acuta della pandemia, quando era calato nuovamente sotto la soglia del 50%, ma comunque è ancora sideralmente distante sia dal 62,7% della media europea sia dalla soglia del 60% che secondo la Strategia di Lisbona avremmo dovuto raggiungere entro il 2010. Oggi come allora, l’obiettivo di sei occupate su dieci continua ad apparire un miraggio. In alcuni territori del Mezzogiorno addirittura un’utopia. «Il 51,9% è un dato in crescita certamente positivo», commenta Linda Laura Sabbadini (Istat), chair del W20 2021 in Italia, appena rientrata dal W20 in India, il gruppo del G20 sulla parità di genere. «Ma attenzione. Nel gennaio 2004 il tasso di occupazione femminile era al 45,1%. Ci rendiamo conto che sono passati 19 anni? Neanche 7 punti in più. No a facili entusiasmi. Abbiamo ancora troppa strada da fare per considerarci soddisfatti».

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Prudenza, quindi, nel seguire le variazioni mensili del numero di occupati o nel festeggiare il ritorno alla situazione pre-pandemia: il focus va tenuto sul dato dell’occupazione, che non sta mostrando segnali sostanziali di miglioramento o inversione di tendenza. D’altro canto, il gap di genere è evidente in ogni dimensione. Se le donne che svolgono un lavoro retribuito restano sempre circa la metà, il tasso di disoccupazione femminile è del 9,5%, quello maschile è del 6,7%. Ancor più ampia la quota delle inattive: sono 42,6 su cento, gli inattivi il 25,2%. La non partecipazione è ancora una questione femminile. O forse è “la” questione femminile per eccellenza: il lavoro spesso neanche si cerca, anche perché quello non retribuito continua ad essere il fardello che è sempre stato.

L’asimmetria nel lavoro di cura familiare resta una zavorra: per le donne rappresenta oltre il 62% sul tempo di lavoro complessivo della coppia di partner occupati. La parità è ben lontana (e anche qui il divario Nord-Sud è amplissimo). L’altro nodo è quello della maternità, che continua a essere percepita come un ostacolo non solo alla crescita professionale ma anche al lavoro in sé, (due anni fa le donne occupate senza figli erano il 74%, quelle con un figlio under 6 il 54%). secondo i dati Inapp, dopo la nascita di un figlio quasi 1 donna su 5 (18%) tra i 18 e i 49 anni non lavora più e solo il 43,6% permane nell’occupazione (il 29% nel Sud ). Motivazione prevalente la conciliazione tra lavoro e cura (52%), seguita dal mancato rinnovo del contratto o licenziamento (29%).

Non si tratta solo di quantità, ma anche di qualità: il lavoro delle donne, quando c’è, è più precario di quello degli uomini e meno retribuito. La quota di contratti stabili, come ha rilevato il Gender Policies Report dell’Inapp, incide per il 20% su quelli maschili e per il 15% su quelli femminili. Sulla totalità dei nuovi contratti delle donne, il 49% è a tempo parziale, contro il 26,2% di quelli degli uomini. E in tempi in cui si parla di “quiet quitting” in termini di benessere personale sul posto di lavoro, chi si può permettere di mettere confini se ha un posto di lavoro precario o magari con un part-time involontario?

Precarietà e tempo parziale rendono inevitabili i contraccolpi sulle retribuzioni. Eurostat fotografa nel 2020 un gender pay gap del 13% in media nell’Unione europea, con l’Italia che va dal 4,1% del settore pubblico al 16,5% del settore privato. Le vette nel nostro Paese si raggiungono nel mondo delle professioni scientifiche e tecniche (26%) e in quello della finanza e delle assicurazioni (22,9%), gli ambiti in cui peraltro le donne sono di meno. Perché la segregazione orizzontale – la concentrazione femminile nell’insegnamento, nei servizi di cura alla persona e nei lavori impiegatizi – non è stata scalfita. Lo ha messo in luce, da ultimo, l’elaborazione dei dati Istat curata per Il Sole 24 Ore del Lunedì dalla Fondazione Leone Moressa: le donne sono ancora solo un quarto dei dirigenti e degli imprenditori e meno del 40% di chi svolge professioni tecniche.

Disuguaglianza chiama disuguaglianza, facendo lievitare gli squilibri con il passare del tempo. L’ultima relazione annuale dell’Inps, riferita al 2021, ha evidenziato come sul totale di 305 miliardi di euro di pensioni erogate, solo il 44% sia stato corrisposto alle donne. La differenza tra uomini e donne nel reddito pensionistico è risultata di oltre 6mila euro.

C’è un ultimo numero che vale la pena continuare a monitorare: quello delle dimissioni volontarie che, seppur senza avvicinarsi al fenomeno visto negli Usa, hanno mostrato un incremento notevole nelle ultime rilevazioni, a prevalenza femminile. Dato che può essere letto come una ricerca di maggiore qualità e riconoscimento, in positivo, o come maggiore difficoltà di restare in condizioni svantaggiose, in negativo. Se teniamo presente che le donne secondo le ricerche soffrono di burnout in misura sensibilmente maggiore rispetto agli uomini, la bilancia rischia di pendere drammaticamente per la seconda ipotesi. I numeri parlano chiaro: dobbiamo vedere l’elefante nella stanza, prima che sia troppo tardi.

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