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La storia veneziana del pesce bastone

di Alessandro Marzo Magno

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(AgfCreative)

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12 ottobre 2018
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3' di lettura

Avevano visto morire gran parte dei loro compagni di viaggio, durante i mesi di fine 1431 nei quali erano andati alla deriva nei mari del Nord. Dopo che un forte vento di scirocco il 5 novembre porta la nave fuori rotta, dalle parti delle isola Scilly, e la rende ingovernabile danneggiando il timone, il 17 dicembre il capitano Pietro Querini e il suo equipaggio decidono di abbandonarla. Una delle due barche di salvataggio era sparita, insieme ai 27 uomini che ci stavano dentro. Quando il veneziano Querini, e i pochi sopravvissuti dei 47 che erano nella seconda imbarcazione, approdano, il 6 gennaio 1432, su uno scoglio deserto delle isole Lofoten, in Norvegia, non sono alla fine dei loro patimenti.

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Sarebbero dovuti andare avanti mangiando vermicelli, chiocciole e conchiglie, far festa grande quando ritrovano spiaggiata la carcassa di una balena e finalmente mangiare un po' di più, ma solo l'arrivo – casuale – di una barca dalla vicina isola di Røst li avrebbe davvero salvati dalla morte. Giunti nel centro abitato, i naufraghi si accorgono che gli abitanti si nutrono con pezzetti di un pesce essiccato, duro come un legno, lo chiamano pesce bastone, stock-fish, per l'appunto. Querini ne scrive in una relazione che è sopravvissuta (uno dei pochi documenti in autentico veneziano d'epoca) e che si conserva nella Biblioteca apostolica vaticana. Non è l'unica relazione di quel viaggio giunta fino a noi: abbiamo anche quella di due ufficiali di bordo, Cristoforo Fioravanti e Nicolò di Michiel, oggi conservata nella Biblioteca nazionale marciana di Venezia. I racconti degli scritti coincidono e si integrano.

Da Venezia a Napoli passando per Genova
I veneziani non restano soltanto ammirati da questo pesce secco, ma sono soprattutto sorpresi perché gli abitanti delle Lofoten sono puliti, si lavano, sono generosi con i naufraghi al punto di condividere con loro le mogli (una leggenda vuole che gli abitanti dell'arcipelago abbiano i capelli più scuri di quelli del resto della Norvegia, ricordo genetico del salvataggio dei naufraghi veneziani).

Una volta rifocillati, quando è ormai primavera, i marinai lasciano l'arcipelago, arrivano a piedi fino alla Svezia dove vengono ospitati da un ricco signore, messer Zuan Franco, pure lui veneziano e fiduciario del re di Svezia. Gli abitanti delle Lofoten avevano regalato a Pietro Querini una sessantina di pesci bastone che l'uomo usa per effettuare pagamenti durante il viaggio che lo porta in Inghilterra e, da lì, a casa, a Venezia.
Querini è un patrizio, appartiene alla classe di governo veneziana, la sua è una famiglia importante e la relazione che scrive ottiene un'immediata e vasta eco. Si diffonde la notizia che nell'estremo nord esista questo strano pesce essiccato, ma solo e soltanto la notizia. Il nobiluomo, contrariamente a quanto spesso si dice, non ha portato con sé a Venezia alcuno stoccafisso e l'importazione in Italia del merluzzo conservato avverrà soltanto a inizio Cinquecento e in un luogo diverso: a Napoli.

La differenza tra stoccafisso e baccalà
Saranno poi i genovesi i principali commercianti di stoccafisso (merluzzo essiccato) e baccalà (merluzzo sotto sale). Per un'inversione linguistica che nessuno ha mai del tutto spiegato a Venezia, nel Veneto e nelle zone appartenute alla Serenissima (Bergamo, Brescia, Friuli, Istria, Dalmazia) lo stoccafisso viene chiamato baccalà. Quindi il baccalà mantecato (veneziano), o il baccalà alla vicentina, sono in realtà fatti con lo stoccafisso. Linguisticamente più corretto, invece, il versante tirrenico dove, con la parola baccalà, viene indicato il merluzzo sotto sale e non quello essiccato.

È certo che il baccalà fosse conosciuto anche nella Sicilia normanna, ma non sembra essersi mosso da lì, come invece accaduto a molti altri alimenti (dalla pasta al riso, dagli spinaci al gelato). Alla straordinaria diffusione in Italia di un prodotto proveniente da tanto lontano (a testimonianza che il chilometro zero non è mai esistito) hanno contribuito diversi fattori: il basso prezzo – si trattava di un cibo alla portata di tutti, decisamente popolare – e il fatto che fosse pesce conservato. Quando non esistevano i frigoriferi l'essiccazione o la salagione erano fondamentali per mantenere gli alimenti e infatti il pesce conservato era molto, ma molto più diffuso di quello fresco, e arrivava anche in zone lontane dal mare, basti pensare alla bagna càuda piemontese, con le acciughe sotto sale liguri. Un aspetto determinante, che oggi spesso dimentichiamo, erano le prescrizioni religiose: in vaste aree della penisola l'unico modo per rispettare i precetti ecclesiastici, che vietavano il consumo di carne nei giorni di magro, era mangiare pesce conservato. Questo spiega perché il baccalà e lo stoccafisso si siano diffusi ovunque e con tanto successo.

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