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Stipendi pubblici, addio al tetto dei 240mila euro per i vertici dei ministeri e delle forze armate. L’ira di Draghi

di Gianni Trovati

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(foto  Agf)

(foto Agf)

Aumento grazie a un correttivo infilato in extremis al decreto Aiuti-bis in conversione al Senato

13 settembre 2022
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2' di lettura

Il tetto generalizzato a 240mila euro lordi all'anno per gli stipendi pubblici comincia definitivamente a tramontare. Dopo il primo, piccolo colpo che con la legge di bilancio ha permesso di aggiornare il limite allineandolo agli aumenti previsti nei rinnovi dei contratti nazionali del pubblico impiego, arriva ora la prima deroga esplicita. Che permette di superare i 240mila euro, senza fissare ex ante alcun nuovo limite fisso, agli stipendi di un selezionatissimo gruppo di alti vertici della pubblica amministrazione.

Correttivo inserito in extremis al dl Aiuti-bis

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I fortunati, che spuntano l’aumento grazie a un correttivo infilato in extremis al decreto Aiuti-bis in conversione al Senato, con un accordo fra i partiti che ha superato anche il netto disappunto per il metodo trapelato da Palazzo Chigi, sono in pratica i vertici delle Forze armate e dei ministeri. Rientrano nel gruppo il capo della polizia, i comandanti generali di Carabinieri e Guardia di Finanza, il capo dell'amministrazione penitenziaria, i capi di Stato maggiore di difesa e Forze armate, il comandante del Comando operativo di vertice interforze, e il comandante generale delle Capitanerie di Porto. Ma, soprattutto, accanto a loro ottengono la deroga tutti i capi dipartimento e i segretari generali di presidenza del Consiglio e ministeri.

Cosa cambia

Per tutte queste figure il “trattamento accessorio”, cioè le voci che si aggiungono allo stipendio di base e che negli scalini più alti della gerarchia sono le voci dominanti della retribuzione, potranno superare il limite massimo fissato introdotto a fine 2011, quando il decreto Salva-Italia (Dl 201/2011, articolo 23-ter) rappresentò l'esordio del governo Monti nella battaglia contro il rischio default del Paese, e rivisto nel 2014 all'inizio del governo Renzi. Altri tempi. Da allora, nonostante le crisi a ripetizione abbiano colpito in modo ancora più duro la nostra finanza pubblica, il tetto è entrato in discussione, soprattutto nella sua azione di limite alla capacità di attrarre manager di alto livello nelle società pubbliche. La deroga, che si è fatta largo nell'ultimo spazio di intervento normativo lasciato al Parlamento prima delle elezioni del 25 settembre, non affronta però quel problema. E riserva i propri benefici ai vertici di Forze armate e ministeri.

Lo scontro politico

Le forze politiche, tirate in ballo da Palazzo Chigi che parla di una «dinamica squisitamente parlamentare» frutto di una intesa tra i partiti, respingono l’addebito. Per il Pd si tratta di «un emendamento di Forza Italia riformulato dal Mef, come tutti gli emendamenti votati oggi con parere favorevole, che non condividiamo in alcun modo» e annuncia un ordine del giorno al dl aiuti bis per impegnare «il governo a modificare la norma e ripristinare il tetto nel primo provvedimento utile e cioè nel dl aiuti ter». Anche Matteo Renzi sottolinea come «il governo ha fatto questa riformulazione e non avevamo alternativa che votarlo per evitare che saltasse tutto e saltassero 17 miliardi di aiuti alle famiglie».

Ricostruzione che innescano la reazione del Mef: via XX settembre ha fatto sapere di aver dato solo un contributo tecnico sulle coperture. Si tratta di un emendamento parlamentare, viene spiegato, per la cui attuazione comunque è necessario un provvedimento successivo.

La riformulazione dell’emendamento di Forza Italia era stato votato in commissione da tutti i partiti. Nel voto in Aula Fdi, Lega e M5S si sono astenuti.

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