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Grandi gruppi e Pmi impegnati nel sociale

di Giulia Crivelli

29 maggio 2018
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3' di lettura

Sono passati poco più di cinque anni dalla strage del Rana Plaza: era il 24 aprile 2013 quando a Savar, periferia industriale di Dacca, capitale del Bangladesh, crollò un edificio di otto piani che ospitava una fabbrica tessile. Bilancio della tragedia: 1.129 morti e oltre 2.500 feriti. Fu il più grave incidente mortale nella storia dell’industria del tessile-abbigliamento, nonché il più letale cedimento strutturale nella storia moderna. Solo allora l’opinione pubblica occidentale sembrò accorgersi delle condizioni in cui si lavora in Bangladesh e in molti altri Paesi scelti da colossi della moda per delocalizzare e abbassare i costi di produzione.

In questi cinque anni si sono moltiplicate le certificazioni e gli accordi con agenzie internazionali e governi dei Paesi asiatici e africani: le aziende europee e americane del settore tessile e moda sembrano seriamente impegnate a verificare le condizioni di lavoro e l’equità dei salari e a impedire lo sfruttamento come manodopera di bambini. Oggi c’è sicuramente maggiore trasparenza: tutti noi consumatori dovremmo sapere cosa c’è dietro ciò che compriamo e perché costi così poco.

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Essere socialmente sostenibili è un impegno internazionale ma può essere altrettanto serio in Italia. Primo, perché è sempre possibile migliorare le condizioni di lavoro, specie nelle fabbriche e in particolare quando la maggior parte dei dipendenti sono donne. Secondo, perché spesso le sedi produttive si trovano in luoghi “fragili” del nostro Paese, che hanno bisogno di essere tutelati dal punto di vista sociale e ambientale.

Nelle Marche il gruppo Tod’s da molti anni destina l’1% degli utili a progetti di solidarietà sociale sul territorio. Il 19 aprile scorso l’assemblea ha deliberato per quanto riguarda il 2017: vicina ai 700mila euro la cifra in questo caso.

Molto forte l’impegno del gruppo Ermenegildo Zegna, in Piemonte: anche nel 2018 prevede di destinare oltre il 5% degli utili a sostegno di progetti di aiuto alle comunità locali, di ricerca scientifica e di difesa dell’ambiente, avendo come best practice di riferimento l’Oasi Zegna, internazionalmente riconosciuta come il più importante progetto di “mecenatismo ecologico” esistente. C’è inoltre il finanziamento di borse di studio per un valore massimo complessivo di un milione di euro all’anno: il progetto si chiama Ermenegildo Zegna Founder Scholarship ed è nato per offrire a giovani di talento che si siano laureati in Italia l’opportunità di conseguire un master o un dottorato presso università o centri di ricerca di eccellenza internazionali, a fronte del loro successivo impegno a rientrare nel nostro Paese.

Abbiamo citato due gruppi della moda e del tessile italiano con fatturati superiori al miliardo di euro; va sottolineato però che la stragrande maggioranza delle aziende e Pmi italiane del settore attuano forme di sostegno al territorio e di welfare aziendale. Nella filiera della moda-abbigliamento forse più che in altre c’è una grande consapevolezza che la ricchezza di un’impresa sono le persone che ci lavorano e che solo motivandole e valorizzandole il “manufatto” finale può avere quel valore aggiunto che tutti riconosciamo al made in Italy nel mondo, in particolare nell’alto e altissimo di gamma.

Un altro esempio italiano, questa volta in Lombardia, è il gruppo Albini, il più importante produttore europeo di tessuti per camicie, con un fatturato di circa 150 milioni e 1.400 dipendenti. Silvio Albini, prematuramente scomparso nel gennaio scorso e presidente dell’azienda fin dagli anni 80, ha lasciato un’importante eredità morale che riguarda proprio la responsabilità sociale.

«La sostenibilità oggi è parte integrante del nostro modo di fare impresa, nell’interesse e nel rispetto dei nostri collaboratori e degli stakeholder», amava ripetere Albini. Intorno ad Albino, sede storica dell’azienda, a pochi chilometri da Bergamo, il gruppo è riconosciuto come punto di riferimento sia per aver sempre tutelato l’occupazione, anche negli anni della crisi del tessile, sia per il sostegno a iniziative culturali, sociali e legate alla formazione e istruzione delle nuove generazioni. Gli stessi principi hanno guidato lo sviluppo in Africa: a Borg El Arab, in Egitto, nel 2009 Albini ha inaugurato la tessitura Mediterranean Textile e nel 2010 la tintoria filati Delta Dyeing. Stabilimenti che rispettano gli stessi standard di quelli italiani e offrono ai dipendenti le medesime garanzie per la salute.

Sempre in tema di materie prime, è giusto ricordare i principi di sostenibilità sociale che guidano Zegna in Australia per la lana merino, Loro Piana e Lanificio Colombo in Mongolia per il cashmere. Agli allevatori viene garantita non solo una fonte di reddito costante, ma buone pratiche che escludono ogni sfruttamento del lavoro e del territorio.

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