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Indurain: «Il ciclismo di oggi è più stressante ma Pogacar può vincere 6 Tour»

di Cheo Condina

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Da sinistra a destra: Miguel Indurain, Alberto Sorbini, presidente Enervit, e Davide Cassani

Da sinistra a destra: Miguel Indurain, Alberto Sorbini, presidente Enervit, e Davide Cassani

Miguel Indurain, Ambassador Enervit, correrà la Maratona delle Dolomiti del 3 luglio insieme ad oltre 8milla appassionati di ciclismo, che misureranno le loro forze e le loro ambizioni sui tornanti delle montagne rosa

2 luglio 2022
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5' di lettura

L'avversario più difficile da affrontare? “Gianni Bugno, fortissimo”. La salita più dura mai percorsa? “L'ho fatta al Giro d'Italia: il Mortirolo”. Nostalgia per la vita da ciclista? “No, quello che dovevo fare l'ho fatto: oggi continuo ad andare in bici ma solo per divertimento, non so neppure quanti chilometri l'anno percorro”. Miguel Indurain, assieme a leggende del ciclismo come Jacques Anquetil, Eddy Merckx e Bernard Hinault, è riuscito a vincere cinque Tour de France, oltre a due Giri d'Italia (nel 1992 e nel 1993). Oggi, a 57 anni, “Miguelon” conserva un fisico possente ma - diversamente da altri colleghi ex professionisti - perfettamente asciutto.

È inoltre Ambassador dell'Enervit, azienda quotata a Piazza Affari e leader nel mercato dell'integrazione alimentare sportiva e della nutrizione funzionale. In questa veste, Indurain corre alla Maratona delle Dolomiti di domenica 3 luglio insieme ad oltre 8milla grandi appassionati di ciclismo, che misureranno le loro forze e le loro ambizioni sui tornanti delle montagne rosa.

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Indurain, cosa significa per lei la Maratona delle Dolomiti?
È un evento ciclistico molto importante, che attira tantissima gente con la passione per la bicicletta e che ha salite come il Pordoi e il Sella, montagne che hanno scritto la storia del Giro e di tante tappe. È un appuntamento fisso da decenni e ci tengo ad esserci.

Che percorso farà? Corto, medio o lungo?
Sono poco allenato ma fa lo stesso, sono tranquillo. Il corto spero di no, credo il medio. Dipenderà anche chi incontrerò strada facendo, se mi trovo un bel gruppetto vedremo che si può fare.

Lei è qui, oltre che come appassionato di ciclismo, come Ambassador di Enervit. Che cosa significa per lei?
Ho rapporti con pochissime aziende. In Spagna lavoro con il Santander, di cui fa parte la banca Banesto, sponsor della mia squadra quando correvo. E poi lavoro con Enervit, che ho conosciuto nel 1992 al Giro d'Italia: con il suo numero uno Alberto Sorbini e con tutta l'equipe ho sviluppato un bellissimo rapporto di amicizia e collaborazione. Trent'anni fa c'erano soltanto barrette e sali, oggi c'è stata una fortissima evoluzione nel mondo dell'alimentazione sportiva e dell'integrazione ed Enervit è leader in questo: un altro mondo rispetto alla mia epoca.

Questo vuol dire che la vita dei corridori di oggi è più facile?
No, tutt'altro, parlando con i corridori mi dicono che magari fanno meno corse, più corte ma più stressanti. Non è tanto una stanchezza fisica ma mentale, anche se in realtà questa evoluzione c'è stata in molti lavori, non solo quello del ciclista: tutto è diventato molto, troppo veloce.

A proposito di lavori, all'apice della sua carriera lei disse: il mio lavoro non produce nulla, quello di un artigiano sì. È ancora di questa idea?
Certo che sì. Il ciclista non produce nulla di concreto, sale una montagna per poi fare la discesa, anche se, va detto, dà emozioni e soddisfazione ai tifosi.

Le manca qualcosa della vita da ciclista?
Non mi manca nulla o quasi. Ho fatto abbastanza competizione, ora continuo ad andare in bici ma per piacere. Ecco, magari mi manca il fatto di stare insieme ai compagni di squadra o il vedere amici in altri Paesi, cosa che da professionista avveniva spesso, e oggi solo una due volte l'anno.

Che “mestiere” fa oggi?
Mi occupo di pubblicità, di eventi a cui lavoro con Banesto o con Enervit, come è il caso della Maratona delle Dolomiti; a Pamplona, dove vivo, ho una Fondazione dedicata allo sport.

Nessuno dei suoi figli fa il ciclista?
No. Ho una figlia che studia biochimica, e due figli che lavorano uno a Kpmg e uno alla Rapha (azienda specializzata nel vestiario per bici di alta gamma).

Esattamente 30 anni fa lei realizzò la doppietta Giro d'Italia-Tour de France: cosa ricorda di quell'anno?
Beh, fu un anno intenso. Ero venuto al Giro in condizione non ottimale ma comunque buona, per prepararmi al Tour. Arrivai alla cronometro finale di Milano in gran forma e la vinsi, conquistando anche la corsa rosa. Poi trionfai anche al Tour, anche se l'ultima settimana di corsa ero un po' stanco.

Dopo di lei nessuno, eccetto Marco Pantani nel 1998, ha realizzato la doppietta Giro-Tour. Il giovane fenomeno sloveno Tadej Pogacar può riuscirci?
È difficile vincere due grandi corse a tappe in una stagione, che siano il Giro e il Tour o il Tour e la Vuelta. Bisogna pianificare bene l'anno e concentrarsi solo su questo obiettivo. Ci sono tanti fattori che possono incidere: la mentalità del corridore o le richieste degli sponsor, per esempio. Ma fare la doppietta è molto difficile.

E invece vincere sei Tour? Ce la farà Pogacar?
Direi che può farcela, ne ha già vinti due e quest'anno mi sembra in forma. Attenzione, però: al Tour la competizione è sempre altissima, e le insidie della strada sono diverse, non sempre vince il più forte.

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Miguel Indurain ai tempi d’oro del grande ciclista

Lei ha rimpianti per non essere riuscito a vincere il sesto Tour?
No, nessuno. Perché dovrei averne? Ci ho provato e non ci sono riuscito…

E per il Mondiale del 1996 in Colombia? Lei era nettamente il più forte ma ha favorito la vittoria del connazionale Olano…
Forai a due giri dalla fine, poi quando riuscii a rientrare dopo poco scattò Olano. A quel punto non potevo più attaccare anche se avevo la forza per farlo. Però sono arrivato secondo, e quello è stato il primo Mondiale vinto dalla Spagna, a cui sono seguiti quelli di Freire, Astarloa e Valverde. Sono contento sia andata così.

Rispetto alla sua epoca, i percorsi dei grandi giri sono cambiati molto: poche cronometro e tante salite.
Direi che tutto il ciclismo è cambiato molto, si corre in cinque continenti ormai. Devo dire che con questi percorsi nelle corse a tappe i passisti hanno poche opportunità.

Qual è stato il ciclista più forte che ha incontrato?
Ce ne erano diversi, ma direi Gianni Bugno, che era fortissimo anche se non aveva la mentalità di Chiappucci o Rominger. Non ha mai vinto il Tour ma ha conquistato due volte il Mondiale, dove tra noi c'è sempre stata grande rivalità.

Qual è stato il rivale che invece le è più dispiaciuto battere?
Nessuno! Fuori dalla competizione siamo tutti amici, ma in bici no.

E la salita più dura mai affrontata?
Tante! Ma una davvero dura è stato il Mortirolo, ma anche il Col du Galiber o il Colle dell'Agnello sono ascese che ricordo come molto impegnative, per l'altitudine, per lo sforzo ma anche per la concentrazione richiesta.

Un'ultima domanda. Lei da giovane non andava mai alla festa dei tori di Pamplona perché faceva vita d'atleta. Oggi ci va?
Sì certo, ma non mi faccio inseguire dai tori in strada, guardo e basta! Quello è decisamente più pericoloso delle discese dolomitiche in bicicletta!

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