di Angelo Flaccavento
Dior Haute Couture PE 2023
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La moda al momento appare divisa tra content creation e creazione vera e propria, tra intrattenimento virale e materialità del far vestiti. La settimana della haute couture parigina si apre con un bang che manda in delirio i social: tra le seggiole dorate di Schiaparelli, sotto le volte affrescate del Petit Palais si materializzano in sequenza tre abiti da cui protrudono teste giganti e iperrealiste di animali. Sono la lonza, il leone e la lupa di memoria dantesca. Nella Divina Commedia, simboleggiano gli impedimenti che Dante deve superare: rispettivamente lussuria, superbia, cupidigia. In passerella, sono tre ingombranti props che sottolineano l'ispirazione vagamente dantesca di una collezione disomogenea.
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Le tre fiere del poema, in versione fiera di paese o circo Togni, sono divisive. I commentatori sempre veloci e sempre imprecisi, come il web impone, le scambiano per teste impagliate di animali veri, e giù sassi e anatemi per apologia della caccia. In realtà sono oggetti realizzati con zelo vegano, e con encomiabile accuratezza. Come che sia, non si parla d'altro, a riprova del fatto che il direttore creativo Daniel Roseberry ha sintonizzato la storica maison sulla lunghezza d'onda del momento. Il suo lavoro è sovraccarico, teatrale, barocco, ma anche chiuso nella dimensione della pura visibilità.
Impossibile immaginare creazioni così grevi in situazioni di vita vissuta: troppo pesanti, come costumi al teatro. Però suscitano dibattito, attraggono attenzioni, fidelizzano, e hanno fatto schizzare Schiaparelli in cima alla piramide del desiderio. Ci sono pure le clienti, in prima fila: star dello showbusiness come Doja Cat, aliena per quanto mai, ma anche madame con le scarpe dai puntali oro e i tailleur drammatici. La dicotomia è evidente, ma non è dannosa: ha anzi creato l'identità moderna di Schiaparelli.
Roseberry ci appare al meglio quando è rigoroso, invece che baraccone, ma queste sono questioni di gusto. È certo curioso che cotanta modernità nasca da abiti strutturati, imbustati, pesanti come creazioni di due secoli fa, insomma per nulla moderni, invero costumistici. Perché infatti chi fa la couture moderna ma la pensa perché sia indossata, insomma chi fa i bei vestiti negli atelier dove il sapere è infinito, punta su una ineffabile leggerezza.
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Maria Grazia Chiuri, da Dior, non insegue lo scoop virale, ma immagina abiti che, senza sforzo, fanno le donne belle. Il sottotesto narrativo non muta: emancipazione, empowerment e territori limitrofi, a questo giro contenuti nella scatola scenica progettata da Mickalene Thomas, omaggio alle figure, nere o di etnia mista, che sono diventate modelli di riferimento, infrangendo le barriere razziali, andando controcorrente. Come Josephine Baker, cui la collezione si ispira, muovendo tra il camerino - vestaglie e lingerie - e lo stage - i flapper di perline - con tutto un corollario di giacche impalpabili, tailleur impeccabili e vestine aggraziatissime. Si celebra lo spettacolo come luogo di libertà, in una maniera sottile, quasi inapparente. Qui sorprese non ce ne sono, anzi ci annoia anche, ma si può star certi che le clienti troveranno quel che vogliono per vestire ogni momento, anche quotidiano, delle proprie specialissime vite.
Giambattista Valli (Photo by STEPHANE DE SAKUTIN / AFP)
Ha stuoli di clienti, d'ogni età e provenienza, ma accomunate da edonismo e indipendenza, Giambattista Valli, sempre in bilico tra romanità ed esprit parigino, scala monumentale e rapidità cittadina. Questa stagione è protagonista il colore, subtropicale, vivido, deflagrante come in una foto di Slim Aarons e similmente spensierato, per abiti pensati come momenti di godimento personale, non di esibizione social.
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