di Vittorio Carlini
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Per rispondere alla domanda bisogna a priori distinguere tra: coloro che, più o meno approfonditamente, conoscono il funzionamento ad esempio del bitcoin (cioè hanno almeno letto e compreso il “White parer” di Satoshi Nakamoto); e coloro i quali, invece, sanno poco o nulla delle cryptocurrency e della blockchain. I primi spesso vedono nel bitcoin una “geniale” struttura che consente lo scambio di moneta senza il controllo di un istituto finanziario centralizzato.
Certo: la sua impostazione che induce l’asset ad acquisire nel tempo, al di là della volatilità, maggiore valore non dispiace. Ma in questi operatori prevale la condivisione di un progetto che disintermedia, di fatto, le Banche centrali. Nella seconda ipotesi, invece, la spinta arriva dall’appetito per la plusvalenza. Negli Usa, secondo un working paper della Bis, i criptoasset non vengono percepiti come alternativi alla moneta legale o alla finanza regolata. Bensì, sono considerati una nicchia digitale oggetto di speculazione.
Insomma, i dati mostrano che chi opera con le criptovalute ha un obiettivo: il guadagno. Un potenziale incasso che, in linea di massima, dovrebbe essere rappresentato dalla stessa impostazione di fondo rialzista del bitcoin. Sennonché, come sempre, si tratta in questo caso di capitale di rischio. Chi, ad esempio, sbaglia la tempistica di entrata o di uscita dal mercato può rimanere letteralmente scottato.
Vittorio Carlini
Redattore
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