di Emilia Patta
(IMAGO/Nicolo Campo)
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«Reintrodurre l’articolo 18? Assolutamente sì, toglierlo è stato un errore». A tanto Stefano Bonaccini non era mai arrivato. Sì, il governatore dell’Emilia Romagna e candidato in pole alla segreteria del Pd aveva già detto che bisogna andare oltre il Jobs act, che delle varie riforme di epoca renziana è quella che a suo avviso ha funzionato meno in quanto non ha risolto né attenuato il fenomeno del precariato. Ma non aveva mai detto che occorre reintrodurre la reintegra prevista dall’articolo 18, totem della sinistra (non solo del Pd). Piuttosto, era ed è la proposta di Bonaccini, occorre agire sulla riduzione del cuneo fiscale per rendere il lavoro precario meno conveniente di quello stabile.
Che cosa è successo? Occhio alle date: questo week end inizia (finalmente, viene da dire, dopo mesi di intorcinamenti sul percorso “costituente”) il congresso vero e proprio che si concluderà il 26 febbraio con le tradizionali primarie aperte agli elettori. E inizia con la votazione delle mozioni congressuali nei circoli, dove potranno votare solo gli iscritti (ridotti ormai a 150mila, la metà di quattro anni fa): da questa “selezione” usciranno i primi due che si confronteranno alle primarie. Ebbene, Bonaccini in queste ore parla prima di tutto a loro, agli iscritti tradizionalmente più a sinistra degli elettori. E il messaggio è chiaro: non c’è bisogno di votare per Elly Schlein, anche io sono di sinistra, anzi sono io la vera sinistra. Da qui, anche, la visita ai cancelli di Mirafiori e l’insistenza sulla necessità di introdurre un salario minino legale, per altro sostenuta da tutti nel partito. Da qui, infine, la lunghezza e la centralità di due capitoli della mozione di Bonaccini: quello sui diritti civili (13 pagine) e quello sul clima e la transizione ecologica (7 pagine, con tanto di citazione iniziale di Naomi Klein): ossia i temi portanti della proposta di Schlein.
Per tornare al vituperato Jobs act, Elly Schlein ha fatto dell’attacco al cosidetto “renzismo” uno dei temi portanti della sua campagna («da Renzi riforme scellerate che hanno diviso il Paese e distrutto il Pd»). E nel mentre i suoi sostenitori, facendo leva sull’amicizia politica di Bonaccini con l’ex segretario e premier, si prodigavano nel dipingere Bonaccini come la quinta colonna di Renzi nel Pd. Chiaro che sciacquare i panni del “renzismo” nel grande fiume dell’identità di sinistra è per Bonaccini il rito da compiere per catturare i voti degli anti-renziani che non si fidano del tutto dell’outsider Schlein.
La giovane ex leader movimentista di Occupy Pd punta molto sul voto femminile e giovanile e punta anche, per le primarie aperte, sul voto di chi non si è mai recato ai gazebo. Ma, si sa, il voto giovanile non è lo zoccolo duro del Pd, al contrario molto popolare tra gli over 50. Sulla carta Bonaccini non ha nulla da temere. Ma in tempi di sconforto per la sconfitta storica del 25 settembre e in tempi di disaffezione generale dalla politica - è la domanda che si fanno i sostenitori di Bonaccini - quanti degli elettori tradizionali delle primarie dem torneranno nonostante tutto ai gazebo?
Ad ogni modo nessuno, neanche tra i sostenitori di Schlien, pensa davvero che i pronostici possano essere ribaltati. Piuttosto è in gioco il quantum: una vittoria risicata di Bonaccini in un partito molto diviso su tutto - dalle alleanze (M5s o Terzo polo?) alle politiche fiscali e del lavoro fino alla posizione sulla guerra in Ucraina (quale pace? inviare ancora armi?) - condannerebbe la sua leadership alla paralisi in partenza. Non solo vincere, ma vincere con un grande stacco è per il governatore dell’Emilia Romagna condizione necessaria per per cambiare davvero “verso” al partito come a suo tempo si proponeva proprio Renzi ( e sappiamo come è finita). Insomma, la leadership val bene un Jobs act, per altro nel frattempo molto ridimensionato nella sua portata dalle sentenze della Corte costituzionale. «D’altra parte dobbiamo vincere il congresso del Pd, mica le elezioni», chiosa un collaboratore del governatore “rosso”.
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