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Lo shale oil non basta a colmare le carenze. C’è chi prevede il petrolio a 100 dollari

di Sissi Bellomo

Putin rispetterà l’accordo di ridurre la produzione di petrolio?

11 maggio 2018
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3' di lettura

La tentazione di stringere un patto con lo shale oil americano, a lungo accarezzata dall’Opec, comincia a tradursi in azioni concrete, anche se stavolta l’iniziativa (e l’interesse) parte dagli Stati Uniti, preoccupati dalla possibilità di un rally eccessivo del petrolio. Bank of America ieri è stata la prima grande banca ad evocare la possibilità di un ritorno a 100 dollari al barile. Il Brent ha chiuso ancora in rialzo, a 77,47 dollari (+0,3%). Prima di ripristinare le sanzioni contro l’Iran, Donald Trump ha cercato la collaborazione di altri produttori di petrolio disposti a rimpiazzare i barili perduti e l’Arabia Saudita ha risposto all’appello, precisando di aver preso in mano la questione «in stretto contatto con la presidenza Opec, la Russia e gli Usa». Ma non è tutto.

Poche ore dopo a Houston, in Texas, il consiglio di amministrazione di Saudi Aramco, la compagnia di stato di Riad, ha incontrato due tra i più noti e autorevoli protagonisti dell’industria dello shale: Harold Hamm, ceo e fondatore di Continental Resources, nonché amico e consigliere di Donald Trump, e Marc Papa, uno dei pionieri del fracking, che dopo aver creato e guidato a lungo Eog Resources – la più efficiente e tecnologica tra le società del settore, nota come la «Apple del petrolio» – è ora al timone di Centennial Resource Development.

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Sui temi oggetto della riunione non è emerso nulla. L’incontro era già stato programmato da qualche tempo, forse per motivi del tutto estranei alle vicende degli ultimi giorni. E Papa ha risposto sbrigativamente alla Reuters, che gli chiedeva conto delle strategie per compensare il petrolio iraniano: «Penso che i produttori Usa non cambieranno per nulla ciò che stanno facendo».

Negli ultimi 2-3 anni l’Opec, su impulso del segretario generale Mohammed Barkindo e dei sauditi, ha organizzato diversi incontri con esponenti del settore dello shale oil, ma senza mai arrivare ad alcun risultato, anche gli appelli a trovare forme di collaborazione non sono mancati.

Pensare ad azioni coordinate da parte dei  “frackers” americani – centinaia di società private, che operano in piena autonomia, secondo le regole del libero mercato e del capitalismo – è probabilmente fantapolitica, anche se ci sono dei precedenti nella storia degli Stati Uniti: Texas Railroad Commission (organismo tuttora esistente, che si occupa di petrolio e non di ferrovie) tra gli anni ’30 e gli anni ’60 regolava con tanta efficacia le estrazioni negli Usa da essere stata presa a modello per la creazione dell’Opec.

Nell’attuale situazione – in cui non bisogna tagliare, ma aumentare l’offerta – i frackers non si farebbero certo pregare. Il problema è piuttosto che gli Usa da soli non sono in grado, neanche volendo, di sostituire i barili iraniani, specie se la perdita dovesse arrivare a un milione di barili al giorno, come durante le sanzioni del 2012-2015. Ecco perché Trump deve piegarsi a chiedere aiuto ai sauditi – e persino ai russi, sia pure indirettamente – benché possa contare su una produzione di ben 10,6 mbg, più di Riad e quasi quanto Mosca.

Washington si scontra con due ordini di difficoltà. La prima riguarda l’insufficienza delle infrastrutture (principalmente oleodotti e porti), che limita la capacità di esportazione degli Stati Uniti e secondo alcuni analisti presto metterà a freno anche l’espansione dell’output, almeno fino al 2019, quando saranno realizzati alcuni oleodotti chiave.

L’altro handicap è la qualità del petrolio. La maggior parte dei greggi «made in Usa» (compresi quello da shale) sono leggeri e poco solforosi, quindi inadatti a sostituire le qualità iraniane, che invece sono “sour”, ossia ad alto contenuto di zolfo. Fanno eccezione i greggi Mars e Poseidon, estratti nel Golfo del Messico, ma non si tratta di grandissimi volumi. E comunque vanno già a ruba, sia sul mercato domestico che su quelli di esportazione.

I tagli dell’Opec si sono sommati al declino della produzione in Messico e Brasile hanno infatti ridotto drasticamente le forniture di greggi medium e heavy sour, che il boom delle estrazioni negli Usa – trainato dallo shale oil – non ha compensato.

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