di Angelo Flaccavento
Un’immagine della sfilata della collezione Fendi AI 23-24
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Delle Lezioni americane di Italo Calvino, concepite nel 1985, quella sulla molteplicità è forse la più preveggente. Tutto, dice lo scrittore, è un groviglio di reti e di relazioni, di nessi e di legami e questo ci deve indurre ad abbandonare la visione frontale per esplorare ogni dimensione e prospettiva. Nel presente connesso 24/7 anche la visione dell’io e di noi stessi è multidimensionale. Possiamo e anzi vogliamo essere tutto - maschio e femmina, delicati e coriacei, aggressivi e introspettivi, timidi e sfacciati, peccatori e anacoreti - per ogni dove e in simultanea. Un forte vento di molteplicità - la si chiami trasformismo, funzionalismo sghembo ma anche, senza che ciò suoni in alcun modo negativo, cerchiobottismo stilistico - attraversa la prima giornata delle sfilate milanesi dedicate all’autunno-inverno che verrà.
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Da Fendi, ad esempio, non solo la nuova borsa di punta si chiama Multi e risponde a diverse funzioni, ma gli abiti stessi, percorsi da tagli verticali, con girocollo e giromanica doppi, possono essere indossati in una quantità di modi diversi, o sono oggetti ibridi, come le gonne fuse con i pantaloni. Kim Jones, il direttore creativo, si ispira a Delfina Delettrez Fendi, al suo modo sottilmente perverso di essere elegante, alla sua capacità di bilanciare severità e provocazione, ma è giusto un espediente narrativo per l’ennesima iterazione dell’eterno dialogo tra maschile e femminile, con un focus notevole sulla maglieria - vera protagonista perché non c’è nulla di più versatile e molteplice. Il tono dell’espressione è angoloso e la scelta dei materiali, soprattutto le organze traslucide, non sempre felice, però c’è una morbidezza che, se non accesa, almeno è tiepida. Alla fine, però, sono gli accessori a brillare.
In tempi fulminei, Glenn Martens ha ridato a Diesel lo smalto abrasivo e la sbruffoneria seducente dei tempi d’oro di Wilbert Das e delle campagne di David Lachapelle. Riecheggiano proprio quell’indelebile immaginario trash le stampe che brulicano su top, mini inguinali, jeans, in una collezione che ha proprio nel denim, vero o simulato, il medium d’elezione. La sfilata si svolge attorno ad una montagna di scatole di profilattici Durex, ed è un inno alla sex positivity. La molteplicità, qui, è soprattutto l’idea che non esistano codici vestimentari men che mai buon gusto: l’imperativo è vestirsi per svestirsi quanto prima.
Da Marco Rambaldi lui e lei si scambiano ogni cosa, inclusa la gonnella e il top di crochet, con spirito discotecaro e vintage. C’è sex appeal in abbondanza anche da Iceberg, dove James Long prosegue il felice dialogo con l’archivio, sicché anche i cartoon sul pullover sono foschi invece che pop, e la pelle sintetica oscilla tra pragmatismo metropolitano e bollori da club underground.
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In un generale clima di durezza e sessualità predatoria, Antonio Marras è l’ultimo dei romantici: la propensione per pizzi, trine e tesori scovati nel baule della nonna non scompare. Le sue donne, però, non sono affatto zuccherine. Dialettali, forse, ma volitive, come Grazia Deledda, cui la collezione – la prima dopo l’acquisizione da parte del gruppo Calzedonia – è dedicata.
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L’universo mutante ma iperfemminile di Del Core prende forma e coerenza: oscilla tra precisione laboratoriale e incontrollabilità della natura, con licheni che diventano ricami e bruciature che suggeriscono modulazioni di texture. Il nero è uno spettro intero da Alberta Ferretti: vellutato, acceso da rossi e falsi neri, sfuma dal romantico al seducente.
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Da N°21, in fine, Alessandro Dell’Acqua sovverte i cliché del buon gusto borghese - imperituro topos di ascendenza pradesca, nella lente di Michelangelo Antonioni - con la carnalità intensa ed elegante che lo contraddistingue. Anche qui entra in gioco la molteplicità, però: doppie aperture, anteriori e posteriori, percorrono tutto, dal cardigan ai cappotti, suggerendo ulteriori sovversioni e infinite svestizioni.
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