di Alberto Fraccacreta
Pier Paolo Pasolini (Agf)
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La poesia di Pier Paolo Pasolini è il terreno instabile e magmatico su cui l'ideologia — secondo Fernando Bandini — cede il passo a una «personale psicomachia», un'autobiografia cioè con «valore esemplare valido ad interpretare anche la storia»: è quindi un organismo compiuto, un tout se tient entro il quale gli orizzonti concettuali e le esperienze stilistiche si fondono nel nome della verità poetica, altra rispetto a qualsiasi posizione politica, civile.
È auspicabile che le celebrazioni per il centenario della nascita dell'autore di Casarsa abbiano come punto fermo il “Pasolini poeta”, nonostante la sola descrizione della sua opera in versi non dia ovviamente piena ragione dell'«unicum agglutinato e compatto» che si cela dietro ai differenti generi, tutti peraltro egregiamente coltivati (saggistica, romanzo, teatro, cinema). La stessa lirica pasoliniana vive di queste spinte al contempo concentriche e centrifughe: dal friulano simbolistico-liberty della Meglio gioventù (1954) al saggismo dantesco delle Ceneri di Gramsci (1957) e alla dialogicità liturgica dell'Usignolo della Chiesa Cattolica (1958), fino alla svolta impoetica di Trasumanar e organizzar (1971), si ha l'impressione di essere al cospetto di un dettame inclassificabile nell'esperienza letteraria novecentesca, che mantiene comunque intatta la sua freschezza pur nei tratti più sperimentali e ostici. Come scrive Bandini nell'introduzione al Meridiano Tutte le poesie (2003), «Pasolini pensa alla scrittura poetica come scrittura privilegiata, luogo dell'assoluto, dove ogni asserzione diventa verità e il privato può presentarsi come un universale».
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A una rapida disamina delle sillogi in questione impressiona l'afflato religioso-cristologico — di un cristianesimo primitivo e contadino — che percorre più o meno carsicamente l'intera parabola: il «Crist al mi clama/ MA SENSA LUS» («Cristo mi chiama/ MA SENZA LUCE»), stigma e storia di un'anima, della Domènia uliva; l'ungarettiano Cristo «sereno poeta,/ fratello ferito» della Passione; il veterotestamentario «Dio che rende miti, rigido» di Poesia in forma di rosa; e persino il candido «Caro Dio,/ facci vivere come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi» di Preghiera su commissione.
Pasolini sembra, insomma, agitato lato sensu dalla caproniana “patoteologia”, una vera e propria ossessione per l'universo spirituale, ricondotto alla distinzione binaria di grazia-peccato, purezza-impurità (si pensi, in particolare, al lacerante contrasto in Litania, dedicata alla Madonna: «Speculum Justitiae/ Specchio del cielo!/ In te le nubi/ i muri gli alberi/ cadono immoti.// Spio capovolto.../ Che pace paurosa!/ Non c'è un sospiro/ nel cielo, un alito»). L'ideale tensione al virgineo, finanche alla castità formale, e la flagrante impraticabilità di tale condizione sono alcuni degli elementi più consistenti della poetica di PPP, posseduto dall'ircocervo di una continua e derisoria démesure degli elementi nominalistici, antitradizionali, anticonformistici nella filigrana di un linguaggio talora sovraesposto al caos dei referenti (in questa direzione Franco Cordelli intravede in Trasumanar e organizzar l'esempio lampante dell'«esplicito» pasoliniano, una sorta d'intemperanza verbale). Eppure, nel severo engagement di «Malvolio» — personaggio scespiriano accostato a Pasolini in un testo di Eugenio Montale del Diario del '71 e del '72 — è possibile ravvisare uno dei più schietti slanci emozionali della tradizione poetica italiana, come accade nei primi versi, immortali, del Pianto della scavatrice: «Solo l'amare, solo il conoscere/ conta, non l'aver amato,/ non l'aver conosciuto».
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