di Giuseppe Lupo
(Андрей Яланский - stock.adobe.com)
3' di lettura
Ammesso che sia mai esistita una borghesia meridionale – nel senso più elementare di classe sociale le cui origini sono da rivendicare presso un ceto intellettuale di estrazione non aristocratica – non è detto che essa abbia dato fino in fondo il proprio contributo alla Storia. È vero che ha esercitato la propria sfera d’influenza «lontana dalle folle contadine e dai “lazzari” delle capitali», così come ha scritto Natalino Irti sulle colonne di questo quotidiano, evocando a testimonianza il fallimento della rivoluzione napoletana del 1799. Ed è vero anche che, bene o male, c’è stato un «pensiero meridionale che si è posto al servizio dell’unità politica e statale del nostro Paese». Ma resta tuttora irrisolta la questione sull’identità di questa borghesia meridionale e sul tipo di apporto fornito alla costruzione della nazione.
Il problema emerge quando si guarda ai rappresentanti di un intellettualismo che si è allineato alla prospettiva dei ceti aristocratici, sia negli anni in cui il Mezzogiorno è entrato in contatto con il processo di Unificazione, sia nel corso del secolo scorso. Tranne pochissimi casi che appartengono a un Novecento utopico e progettuale (Vittorini, Sinisgalli, Silone, Sciascia, Compagna, Pomilio, Prisco, Nigro), dal giorno in cui la Storia ha modificato il corso di eventi apparentemente immutabili, la risposta degli uomini di cultura indica una precisa direzione: difficilmente il Mezzogiorno è stato attore di cambiamenti e gli scrittori, siano essi testimoni dei fatti relativi al 1861 o lontanissimi promulgatori di una memoria condivisa, hanno reagito narrando il sentimento di delusione, la condizione di sconfitta, la dimensione di rimpianto verso quel che sarebbe potuto essere e non è stato.
Nel bene e nel male, la grande letteratura meridionale, che è nata con Giovanni Verga e che nel solco del suo fondatore ha proseguito lungo il Novecento fino ad approdare agli anni Duemila, rimane legata a un labirintico conflitto con la Storia, quasi mai interpretata come luogo dove si afferma la modernità e in cui la condizione umana trova le opportunità per ottenere il riscatto. Non sarà un caso se si è parlato a lungo di Risorgimento tradito o di Risorgimento incompleto: due formule che stanno dietro ai grandi capolavori della letteratura siciliana come I Viceré (1894) di Federigo De Roberto, I vecchi e i giovani (1913) di Luigi Pirandello, Il Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Ma il Risorgimento è solo il primo di tanti esempi che testimoniano di questa lettura corrosiva e piena di sfiducia. Nel corso dei decenni se ne contano altri: per esempio, il passaggio dalla civiltà della terra alla civiltà delle macchine o la fuga dalle campagne verso il Nord industriale, durante il periodo della ricostruzione e del boom economico. Anche su questi temi, che costituiscono l’ossatura dell’Italia repubblicana, la risposta degli intellettuali appare poco convinta e addirittura Carlo Levi, meridionale d’adozione, matura la convinzione che l’emigrazione sia da interpretare a mo’ di fallimento, come l’ennesima guerra che i contadini hanno perduto. Spesso l’attesa del nuovo genera sentimenti di diffidenza e di sicuro è assai più probabile che gli intellettuali abbiano cercato una soluzione alle inquietudini del cambiamento, rimpiangendo epoche che non c’erano più o che non sono mai esistite, il tempo di un’innocente felicità, l’antica e affascinante “età dell’oro”, che tuttavia, se non si sta attenti, rischia che diventi una clamorosa trappola anche per le intelligenze più sofisticate: quella del malinconico ritorno al paese d’Arcadia.
Resta da chiedersi come mai nella stragrande maggioranza degli intellettuali meridionali sia maturata la convinzione che la Storia (il luogo per eccellenza delle trasformazioni) sia rimasta qualcosa di statico e addirittura, alla luce delle tante delusioni, non abbia concesso la speranza di redimersi dal punto di vista umano e sociale. È possibile che a monte di tutto ciò abbia agito una lontanissima suggestione. Proviamo a immaginare se nel Mezzogiorno si fosse affermata la filosofia contenuta nel Decamerone: il primo, vero manifesto di una cultura meridionale, un capolavoro letterario che è stato espressione di una Napoli angioina, ilare e mediterranea, scaltra e mercantile. Borghese, appunto.
Ma la cultura angioina è durata meno di un secolo, spazzata via dagli Aragonesi. I quali si sono comportati da viceré, cioè da esecutori di ordini. Dal narrare angioino il Sud è approdato al narrare aragonese, dal racconto di fantasia al racconto di fatti nudi e crudi. Questa operazione di capovolgimento trova legittimazione proprio in Giovanni Verga, il grande tronco da cui prende vita la narrativa meridionale nella contemporaneità e che in termini non soltanto simbolici significa l’egemonia della scrittura notarile sulla scrittura della progettualità, la vittoria dello scriba sul profeta.
Giuseppe Lupo
P.I. 00777910159 Dati societari
© Copyright Il Sole 24 Ore Tutti i diritti riservati
Per la tua pubblicità sul sito: 24 Ore System
Informativa sui cookie Privacy policy