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Iraq, rinascita o decostruzione di una nazione tormentata

di Alberto Negri

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(Ansa)

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26 agosto 2017
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4' di lettura

Ci sono troppi Iraq per farne uno e le celebrazioni delle vittorie sono ingannevoli. Anche per la liberazione di Mosul il 9 luglio, dopo 9 mesi di assedio all’Isis, ci sono stati adeguati festeggiamenti ufficiali. Così come gli americani celebrarono il 9 aprile 2003 l’abbattimento delle statua di Saddam Hussein in Piazza Firdous a Baghdad. Non eravamo più di 300 ma negli obiettivi delle telecamere sembrava che ci fosse una folla strabocchevole mentre la città intorno era deserta e silenziosa, tramortita dalla fine del regime. Grandi i festeggiamenti anche per la cattura del raìs il 13 dicembre 2003 a Tikrit, seguita poi dalla feroce esultanza dei miliziani sciiti quando lo impiccarono il 30 dicembre 2006. Ma Al Qaida e la rivolta sunnita non erano certo finite e dopo sarebbe arrivato il Califfato proclamato a Mosul nel luglio 2014 da Al Baghdadi.

La liberazione di Mosul

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Eppure i precedenti avrebbero dovuto metterci in guardia. Nell’estate del 1988 sul fronte Iran-Iraq, dopo otto anni di guerra e un milione di morti, ci furono anche allora scene di giubilo e a Baghdad i visitatori stranieri venivano accolti dai fuochi artificiali sul Tigri e abbondanti bevute alcoliche. Non c’erano dubbi dove puntavano gli investitori internazionali: l’Iraq appariva la meta di una grande ricostruzione post-bellica finanziata dall’oro nero mentre a Teheran gli scaffali erano tristemente vuoti e si faceva la spesa con le tessere annonarie.

Le monarchie arabe, le stesse che oggi litigano tra loro e con il Qatar per avere fallito l’obiettivo di abbattere Assad in Siria, avevano appoggiato la guerra del raìs contro la repubblica islamica sciita con prestiti di almeno 50-60 miliardi di dollari: i russi gli avevano venduto i carri armati, i francesi gli aerei, inglesi, americani e italiani ogni tipo di sistema d’arma. Qualche cosa era scivolato pure negli arsenali e nelle casse di Khomeini ma nell’ottica americana del “doppio contenimento”: in realtà non si voleva che quella prima guerra del Golfo tra sciiti e sunniti fosse vinta da nessuno dei due contendenti. Oggi di fronte all’espansione dell’influenza iraniana (e russa) in Medio Oriente, Washington, su spinta saudita e israeliana, è fortemente tentata dall’abbandonare quella linea strategica che ha bilanciato per anni le forze nel Golfo.

Chi avrebbe mai detto che l’Iraq dominato dal clan minoritario sunnita di Saddam, per decenni in superficie così laico e secolarista, sarebbe finito nel caos e poi anche nelle mani dei jihadisti del Califfato? E con quale risultato?

Per liberare Mosul c’è voluto il ritorno in Iraq degli americani, una coalizione internazionale e un esercito iracheno, addestrato sì dagli occidentali ma sostenuto fortemente da Teheran, dalle milizie curde, da quelle sciite, dai pasdaran del generale Qassem Soleimani e persino dagli Hezbollah libanesi. Cioè da quelli che negli anni Ottanta erano i peggiori avversari del regime baathista e dei sunniti e ancora oggi sono rappresentati come i nemici dell’Occidente, delle monarchie del Golfo e di Israele.

La conquista dell’Iran negli anni Ottanta era fallita e l’Iraq portava un fardello di un centinaio di miliardi di dollari di debito estero (Teheran soltanto sette con una popolazione tripla) che non avrebbe mai restituito con i prezzi del petrolio troppo bassi voluti dall’Opec e dal Kuwait: l’invasione della monarchia degli Al Sabah nell’agosto del ’90 era una via d’uscita per fare bottino, risollevare le finanze e cancellare una parte del debito. Qual è oggi l’eredità lasciata dalla guerra all’Isis?

L’eredità della guerra

L’Iraq, in apparenza, sembra essere messo meglio che nell’88. La ricostruzione materiale del Paese ricomincia a fare gola agli investitori. Il ministero del Petrolio ha annunciato che a fine anno Baghdad produrrà 5 milioni di barili. Il petrolio rappresenta la metà del Pil, il 90% delle esportazioni e delle entrate del governo. L’Iraq non produce quasi nulla, importa tutto: durante l’assedio di Mosul ogni giorno vedevamo entrare dal confine turco migliaia di camion e cisterne, che trasportavano dal latte alla benzina raffinata. Anche per questo le riserve sono crollate in un anno da 54 a 45 miliardi di dollari. Le guerre costano. In realtà l’industria e le infrastrutture irachene sono quasi ferme dalla prima guerra del Golfo del 1991: questo Paese negli anni 90 è stato sotto sanzioni strette per 12 anni e dopo il 2003 l’instabilità e il terrorismo hanno frenato gli investimenti. Fioriscono però corruzione e contrabbando: fanno affari d’oro i generali iracheni delle milizie, dei pasdaran iraniani, i businessmen turchi con la triangolazione Turchia-Kurdistan iracheno-Iran. Vecchi traffici, come il contrabbando di petrolio dell’Isis, tornano ad antichi e nuovi padroni che sfruttano le vie di sempre, come testimoniano le carcasse delle cisterne arrugginite e abbandonate lungo le strade.

Un’economia di rapina

Oltre a essere strettamente dipendente dal petrolio, quella irachena è un’economia di rapina dove il bottino è costituito dalla gestione dei traffici. Da questo punto di vista l’Isis aveva parzialmente riequilibrato la bilancia dal lato dei sunniti, sfavoriti dopo la caduta di Saddam rispetto a sciiti e curdi. All’apice della sua espansione nel 2014 l’Isis aveva messo le mani su 800 milioni di dollari presi dalle casse di un centinaio di banche pubbliche e private irachene e gestiva un bilancio di due miliardi di dollari l’anno. Questo era già, in un certo senso, il mini-stato sunnita del Siraq. La fine territoriale del mini-stato però difficilmente sarà anche quella dell’entità e dell’identità jihadista.

In sostanza i problemi etnico-settari, con la relativa redistribuzione delle risorse petrolifere e finanziarie, che avevano agevolato la nascita del Califfato non si risolvono con la caduta di Mosul. Anzi riemerge tutta la fragilità dell’Iraq post-Saddam: il Kurdistan iracheno (Krg) è uno stato nello stato dal 1991, le milizie peshmerga sono state addestrate e armate in chiave anti-Califfato, da americani, tedeschi, italiani e ora il suo leader, Massud Barzani, punta con un referendum, indetto il 25 settembre, all’indipendenza (compreso il centro petrolifero di Kirkuk) cui si oppongono sia la Turchia sunnita di Erdogan che l’Iran sciita degli ayatollah. I riflessi strategici sui curdi turchi e siriani sono evidenti. Possiamo intuire a che cosa sarà dedicato il prossimo festeggiamento ma quasi sicuramente anche la fine formale dell’Iraq potrebbe essere un’altra effimera celebrazione.

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