di Luca Veronese
(AFP)
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La leadership di Recep Tayyip Erdogan sta compromettendo la credibilità della Turchia e ne sta limitando le potenzialità di crescita economica. L’accusa viene dall’agenzia Moody’s che ieri ha tagliato il rating di Ankara da Ba1 a Ba2, collocando l’affidabilità del debito turco due gradini al di sotto del livello di investimento, ancora più in territorio junk , alla pari con Brasile, Croazia e Costa Rica (con outlook e quindi aspettative stabili). L’agenzia americana spiega il downgrade facendo riferimento «all’indebolimento delle istituzioni, agli effetti di eventuali shock economici esterni, ai crescenti rischi geopolitici» sottolineando le necessità di finanziamento e la dipendenza dall’esterno.
Secondo l’analista di Moody’s Kristin Lindow, il governo del presidente Erdogan «sembra essersi concentrato su misure di breve termine, minando le basi di una efficace politica monetaria e mettendo in dubbio le riforme economiche», mentre «la persistente inflazione e la direzione politica adottata, come il perdurare dello Stato di emergenza introdotto dopo il tentato golpe del 2016, stanno pesando sul Paese». Nonostante la crescita sostenuta dell’economia - spiega Lindow - «il debito e il fabbisogno finanziario della Turchia sono peggiorati». Il taglio del rating non ha causato particolari conseguenze sui mercati finanziari e valutari con un leggero deprezzamento della lira (che ha perso il 10% del suo valore sul dollaro nell’ultimo anno e il 40% dall’inizio del 2015).
Negli ultimi due anni anche S&P’s e Fitch avevano abbassato a livello di junk il rating sul debito turco, provocando la reazione di Erdogan: «Metti loro qualche spicciolo in tasca e puoi avere il rating che vuoi. È così che lavorano», aveva detto il leader turco. E anche ieri il governo si è difeso attaccando: «La decisione è ingiusta. Siamo appena usciti dal più difficile periodo della nostra storia recente, ci stiamo riprendendo velocemente, abbiamo grandi investimenti e progetti in corso. Il downgrade è il risultato di condizionamenti politici. Non riflette la realtà della nostra economia», ha dichiarato il ministro del Turismo Numan Kurtulmus.
Il 2017 è stato in effetti un anno record per l’economia turca con un’espansione che potrebbe battere tutte le stime arrivando vicina al 7 per cento. «Le imprese in Turchia si stanno adattando alla crescente necessità di internazionalizzare la loro attività. Allo stesso tempo - spiega Mehmet Buyukeksi, presidente di Turkısh exporters assembly - la dimensione rilevante e il dinamismo del mercato nazionale garantiscono un interessante contesto competitivo, anche per le iniziative dei gruppi multinazionali. E la qualità dei nostri prodotti ci ha permesso di raggiungere anche i mercati più sviluppati alla ricerca di nuovi partner».
Il Paese ha certo enormi potenzialità ma l’attuale boom - secondo molti analisti - è drogato, almeno in parte, dagli aiuti pubblici concessi alle piccole e medie imprese, già fortemente indebitate anche in valuta estera: l’ultimo allargamento del fondo di garanzia del credito ha immesso liquidità per quasi 60 miliardi di dollari. Mentre i tagli alle tasse hanno sostenuto la spesa delle famiglie. È tuttavia tornata la paura dell’inflazione: i prezzi sono aumentati del 13% nel 2017, il massimo degli ultimi 14 anni e il doppio del target della Banca centrale. Tutta l’economia turca starebbe dunque crescendo a debito come evidenziano dal cronico deficit sulle partite correnti.
«L’economia sta crescendo molto velocemente. Ma la Turchia - dice Aldo Kaslowski, presidente di Organik Group, multinazionale della chimica - deve fare i conti con le sue fragilità. Il deteriorarsi del contesto geopolitico ha avuto un impatto negativo sulle esportazioni, gli investimenti, il turismo e sulla crescita in generale provocando anche instabilità finanziaria e deprezzamento della lira. Gli investimenti privati sono stati posticipati, i prezzi salgono, la distribuzione del benessere è squilibrata, la disoccupazione non scende».
Più ancora che dalle misure economiche, la credibilità della Turchia è messa a rischio - secondo Moody’s - dalle tensioni con l’Unione europea e ancora di più con gli Stati Uniti a causa del recente intervento in Siria contro le milizie curde: «Più lungo e più profondo sarà il coinvolgimento in Siria più saranno pericolose le conseguenze per Ankara della crisi geopolitica nell’area».
Il flusso di investimenti diretti dall’estero è in calo: con circa 12 miliardi si è dimezzato negli ultimi dieci anni; mentre lo lo stock è sceso a 132 miliardi, 50 miliardi in meno rispetto al 2014). Gli imprenditori come Kaslowski guardano all’Europa: «L’Unione europea continua a essere l’unico progetto valido per la Turchia. Sappiamo che ci vorrà tempo, ma tutta la business community si sta adoperando per portare il Paese nella Ue».
Luca Veronese
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