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Terrorismo, una generazione in emergenza

di Alberto Negri

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(Epa)

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22 marzo 2017
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3' di lettura

Sono trascorsi quasi 16 anni dal fatale 11 settembre 2001 quando Al Qaida colpì al cuore l'America e la guerra al terrorismo sta ormai lasciando il segno su un'intera generazione. A Oriente come negli Usa e in Europa, dove ieri si commemoravano le vittime degli attentati di un anno fa a Bruxelles mentre un terrorista attaccava Westminster. Come dimostrano gli eventi di Londra, ancora da chiarire, l'emergenza non finirà tanto presto e si proietta in queste ore sul vertice europeo di Roma.

La parabola del terrorismo non è confortante. Quando vennero abbattuti i talebani afghani Al Qaida perse i suoi santuari ma si rafforzò prima in Iraq, poi nello Yemen e in Nordafrica, sopravvivendo alla fine del suo fondatore Bin Laden. Da una sua costola è poi nato l'Isis di Al Baghdadi, organizzazione globalizzata che secondo i servizi Usa può colpire in maniera sempre più sofisticata. Nel terrorismo la “pallottola d'argento” non esiste anche quando si eliminano i capi.

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Lo stesso potrebbe accadere se l'Isis fosse sconfitto sul campo. La perdita di Mosul e di Raqqa saranno sconfitte durissime per il Califfato come entità territoriale ma il jihadismo continuerà a usare l'arma del terrore. Lo sta facendo in Siria e in Iraq ogni giorno ma le notizie degli attentati vengono sommerse dalle cronache delle battaglie contro lo Stato Islamico. E' un'illusione, come ha dimostrato la guerra siriana ispirando i terroristi europei, che il fenomeno resterà confinato a un Medio Oriente sempre più allargato e in cui è ricaduta in pieno la Turchia, membro storico della Nato ma inserito nell'ultima lista delle misure antiterrorismo americane.

I jihadisti troveranno nuovi santuari fuori dalla Siria e dall'Iraq: i foreign fighters saranno costretti a cercarsi un'altra patria islamica, dalla Turchia allo Yemen, dalla Libia all'Asia, all'Africa. Senza contare il timore che molti con passaporto europeo proveranno a tornare e non sarà facile tenerli a bada.
Ma la guerra al terrorismo va ben oltre le misure di sicurezza. Si tratta in realtà di un conflitto che sta cambiando i dati della geopolitica e le vecchie alleanze. Soprattutto da quando la Russia nel 2015 è scesa in campo per sostenere il regime di Damasco. Mosca considera la Siria il suo antemurale per frenare jihadismo e terrorismo nelle Caucaso: tenendo in piedi Assad ha dimostrato che non è disposta a cedere di un millimetro. Diverso il discorso per l'Occidente: dopo “non” avere vinto la guerra in Afghanistan, ha rischiato di perdere l'Iraq. I russi hanno scelto gli alleati giusti, come l'Iran, mentre i riluttanti partner degli occidentali come Erdogan e le monarchie del Golfo hanno flirtato con i gruppi jihadisti. E ora anche le ricche petro-monarchie, come pure la Turchia, in uscita con avvitamento dal campo occidentale, sono inserite nei provvedimenti americani di sicurezza sui voli.

Gli Stati Uniti di Trump non vogliono arabi in casa e mandano messaggi ai loro clienti della regione che pure hanno rifornito di armi a tutto spiano. Agli europei, per non diventare vulnerabili, converrà trovare unità di intenti e intensificare gli sforzi per tenere sotto controllo il Mediterraneo e la Libia. Sempre che Erdogan non congeli l'accordo sui migranti perchè in quel caso il pericolo potrà infiltrarsi nella rotta balcanica. Il fronte dell'emergenza è ampio ma quelle che sembrano adesso scorciatoie securitarie rischiano di trascinare l'Europa come il Medio Oriente in un conflitto senza fine.

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