di Andrea Chimento
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Ci sono esordi italiani di cui si parla poco e che invece meritano una certa attenzione, spesso molto più di altre pellicole di casa nostra che promettono molto in termini mediatici e che invece risultano convenzionali e banalissime: fa parte della prima categoria «Piccolo corpo», interessante opera prima di Laura Samani, regista triestina classe 1989, passata al lungometraggio di finzione dopo aver esordito con alcuni corti e documentari.
Selezionato in diverse kermesse importanti (dalla Semaine de la Critique del Festival di Cannes al Torino Film Festival), «Piccolo corpo» è un film ambientato all'inizio del secolo scorso che vede protagonista Agata, una ragazza che dà alla luce una bambina nata morta. Secondo la tradizione cattolica, la bambina non può essere battezzata e la sua anima è condannata rimanere nel Limbo. Agata sente però parlare di un luogo in montagna, dove i neonati vengono riportati in vita per un solo respiro, per battezzarli e salvare la loro anima: intraprende così questo viaggio, con il corpicino della figlia nascosto, che le farà incontrare un ragazzo misterioso e solitario, pronto ad aiutarla.Bastano poche righe del soggetto per accorgersi della particolarità narrativa di questo film, piccolo come produzione ma ricco di idee, che ci trasporta in un'altra epoca per metterci di fronte agli occhi un'avventurosa odissea che ha come ultima destinazione un possibile miracolo.
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Lo si può leggere come un racconto di formazione, come un film spirituale o come una pellicola che ragiona sul corpo femminile: l'esordio di Laura Samani è tutto questo e, nonostante ci sia qualche passaggio un po' acerbo, riesce a colpire nel segno.Con una forte impronta di realismo (anche per la scelta di attori non professionisti e per l'uso del dialetto), la regista offre inoltre una serie di belle immagini che mettono in relazione e contrapposizione gli esseri umani e l'ambiente circostante: sono diversi i passaggi che si concentrano su luoghi tanto affascinanti quanto ostici che la giovane e determinata protagonista deve attraversare.
Nonostante qualche calo di ritmo, il film regge bene fino alla fine e lascia più di uno spunto di riflessione al termine dei titoli di coda: il risultato è un esordio intenso e tutto da scoprire.
Una produzione molto diversa è quella di «Assassinio sul Nilo», nuovo film di Kenneth Branagh, che adatta un altro romanzo di Agatha Christie dopo «Assassinio sull'Orient Express», uscito nel 2017.Come in quella pellicola, Branagh non si limita alla regia ma interpreta anche l'investigatore Hercule Poirot in un altro film con un cast corale e ricco di volti noti: da Annette Bening a Gal Gadot, passando per Armie Hammer.Riprendendo il libro «Poirot sul Nilo» del 1937, già portato sul grande schermo da John Guillermin nel 1978 con Peter Ustinov nei panni di Poirot, Branagh mette in scena una storia capace di trasmettere tutta la claustrofobia tipica dello stile narrativo di Agatha Christie: in questo caso siamo su un battello sul Nilo, dove sono protagonisti una coppia in luna di miele, naturalmente il detective Hercule Poirot, altri personaggi e… soprattutto un misterioso omicidio.Esattamente come il precedente «Assassinio sull'Orient Express», Branagh firma un film godibile ma un po' pigro, privo di particolari sbavature ma altrettanto incapace di regalare grandi sequenze degne di nota.Il materiale di partenza è talmente ricco di sfaccettature che la visione si segue comunque volentieri, anche per merito di una confezione discreta, ma i guizzi artistici latitano e, soprattutto, il cast non è all'altezza dell'operazione. Il confronto con il gruppo di interpreti del film del 1978 (oltre a Ustinov, c'erano, tra gli altri, David Niven, Mia Farrow, Angela Lansbury, Jane Birkin, Jon Finch e Bette Davis) è a dir poco impietoso.
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