di Giovanni Tria
(IMAGOECONOMICA)
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Seguendo la traccia della Fed, anche la Bce ha alzato di mezzo punto percentuale i tassi di interesse di riferimento, affermando che l’inflazione è troppo alta e che, quindi, la politica restrittiva continuerà con successivi rialzi dei tassi fino a riportare l’inflazione al livello obiettivo del 2% nel medio periodo. La linea sembra chiara e dura ma suscita molte perplessità sulla consapevolezza delle conseguenze della linea tracciata. La Presidente della Bce ha infatti accompagnato la decisione attuale, peraltro del tutto attesa, con dichiarazioni in cui si fanno previsioni relativamente ottimistiche sull’andamento futuro dell’economia europea. Ma il punto è che con un semplice rallentamento dell’economia o con una molto blanda recessione, che significa piccole variazioni negative del Pil, non si capisce in che modo l’aumento dei tassi sarà in grado di riportare, anche se “nel medio termine” come prudentemente affermato, l’inflazione al livello obiettivo del 2%. Si ha l’impressione che, come non c’è stata una analisi corretta delle cause dell’inflazione quando essa veniva sottovalutata, così ora non sia chiara quale sia l’analisi sottostante alla linea dura sui tassi di interesse, o almeno essa non è stata comunicata. Affermare che si va avanti osservando i dati del momento non è un grande contributo di orientamento delle economie e forse neppure delle scelte di politica economica. Certamente, anche se siamo ancora in un territorio in cui i tassi di interesse in termini reali sono negativi, è destinato a diventare più acuto il dibattito sulla correttezza di affidare alla politica monetaria, da sola, il contenimento dell’inflazione attraverso la contrazione voluta della domanda. Questa rubrica non ha mai sposato l’argomentazione che la politica monetaria non debba essere attivata per contrastare una inflazione importata da shock di offerta e non da domanda, per il semplice motivo che un eccesso di domanda si crea anche se la sua causa è una contrazione dell’offerta. Ma vi sono altre argomentazioni che giustificano le perplessità circa le decisioni della Bce e il modo in cui sono state spiegate e, oltre all’osservazione dei dati, un poco di maggiore attenzione ai suggerimenti della teoria economica può essere utile per orientarsi.
La scorsa settimana, in una conferenza a Science-Po a Parigi in onore di Jean Paul Fitoussi, sono convenuti tutti i suoi amici. Nell’occasione abbiamo anche discusso di inflazione. Erano presenti anche i due premi Nobel dell’Economia, Joseph Stiglitz e Edmund Phelps. Non sempre essi concordano, ma il primo, a proposito di inflazione, ha ricordato un contributo teorico importante del secondo per spiegare cosa oggi può accadere di fronte all’aumento dei tassi di interesse. Il contributo richiamato consiste nell’analisi delle politiche di prezzo delle imprese che sono chiamate, razionalmente, a decidere se è più conveniente adottare markups, cioè margini di profitto, alti nel presente con il rischio di vedere i propri clienti allontanarsi nel tempo, oppure fissarli bassi per guadagnare quote future di mercato. In altri termini, le imprese quando fissano i prezzi scelgono anche tra profitti attuali e profitti futuri. Appare evidente che quando si confrontano i profitti futuri con quelli attuali si deve applicare un tasso di sconto sui primi. Questi contributi teorici, che sono stati alla base della rifondazione della macroeconomia moderna che guarda anche al lato dell’offerta e non solo a quello della domanda, risalgono agli anni 70, cioè a tempi in cui l’inflazione non era assente. Essi sono quindi molto utili per capire i rischi attuali. Ciò che la Bce teme è che lo shock iniziale di inflazione importata attivi una spirale prezzi-salari. Almeno questo è ciò che dichiara. Ebbene, l’aumento immediato del costo della liquidità e l’aumento prospettato dei tassi di interesse nel futuro incidono sulle politiche di prezzo delle imprese che, se le condizioni di mercato lo consentono, saranno spinte a privilegiare i profitti attuali rispetto ai profitti futuri. Questo vuol dire che, ove possibile, esse cercheranno di scaricare il più possibile sui prezzi l’aumento dei costi. Come si vede la politica monetaria ha effetti importanti, ma forse non considerati adeguatamente nelle proiezioni quantitative degli uffici studi, che contrastano con l’obiettivo antinflazionistico. A meno che esso sia perseguito creando progressivamente condizioni negative di mercato generalizzate in tutti i settori in modo da non consentire alle imprese di rispondere all’aumento dei tassi di interesse con aumento dei prezzi. Vi è, quindi, un contrasto tra gli annunci aggressivi sui tassi di interesse e le proiezioni relativamente ottimistiche sull’evoluzione conseguente dell’economia europea. A discolpa della Bce, e nei suoi comunicati se ne fa un timido accenno, c’è l’assenza totale della Ue nel concordare una politica di bilancio comunitaria con il fine di contenere i costi delle imprese e nel non perseguire tentativi di contrastare il rallentamento economico con sostegni alla domanda. Tutti gli stati europei si preparano ad andare avanti in ordine sparso e con divergenti possibilità legate alla loro posizione debitoria. Non siamo messi bene in termini di capacità europea di articolare politiche economiche di stabilizzazione. Non resta che sperare nella vitalità delle imprese e nei loro “animal spirits”, che fino ad oggi hanno dato una buona prova, soprattutto in Italia.
Il parlamento sembra aver raggiunto un accordo di massima sulla legge delega per la riforma fiscale. Il punto più condiviso è quello che riguarda la necessità di ridurre la pressione fiscale diretta, cioè l’Irpef, sulle classi di reddito medio basse. Ma per ciò che riguarda la dimensione possibile di questa riduzione, un tema che sembra dimenticato nel dibattito è quello del possibile spostamento del prelievo dalle imposte dirette (Irpef) alle imposte indirette (Iva), cioè dai redditi dei fattori produttivi, che nel caso dell’Irpef sono sostanzialmente i redditi da lavoro, oltre che da pensioni, alla tassazione dei consumi. Il ministro Tremonti definiva questo spostamento “dalle persone alle cose”. Una dimenticanza che è molto strana perché, in un periodo di europeismo condiviso, si elude proprio una raccomandazione tradizionale della Commissione europea. Una raccomandazione il cui fondamento sta nel fatto che questo spostamento del prelievo favorisce la crescita a parità di pressione fiscale complessiva. La ragione è che si ridurrebbe il cuneo fiscale, che entra nei costi di produzione, determinando un aumento delle remunerazioni al netto delle tasse. Ma questo spostamento di prelievo sarebbe anche utile alla crescita perché determina una “svalutazione fiscale”, poiché l’Iva non grava sulle esportazioni, mentre colpisce i consumi di beni e servizi importati in egual misura rispetto a quelli prodotti sul territorio nazionale. In tal modo si recupera competitività internazionale. Non è un caso, inoltre, che nell’economia globalizzata, per tassare localmente i profitti delle multinazionali, si stia valutando di prendere come riferimento le loro vendite nei vari Paesi. E anche nelle discussioni sulla tassazione delle ricchezze si mette in rilievo che quelle personali, in vario modo legalmente o non legalmente occultate, si riflettono nel livello di vita dei beneficiari
al momento del consumo.
Il fatto rilevante è che seguire questa strada permetterebbe oggi una riduzione del prelievo Irpef sui redditi medio-bassi doppio o anche triplo rispetto a quello di cui si discute e ciò faciliterebbe la definizione del “metodo” con il quale ridurre in misura percepibile l’imposizione diretta sulle classi di reddito medio e medio-basso. C’è da decidere, infatti, “come” operare la correzione e le sue dimensioni. In altri termini, vi è da una parte il problema di come finanziare la riduzione del prelievo Irpef e dall’altra il problema di definire la struttura del prelievo, il grado di progressività e come applicarla. Su questo secondo punto, il dibattito politico si è concentrato su due possibili alternative ben descritte, come hanno ricordato Paladini e Visco sul Sole del 30 giugno, nell’ottimo rapporto presentato in una audizione al Parlamento dal direttore generale del Dipartimento delle Finanze del Mef, la professoressa Fabrizia La Pecorella, e ben studiate nello stesso Dipartimento fin dal 2019. La prima alternativa consiste essenzialmente nella riduzione, da 5 a 3, del numero di aliquote applicate per scaglioni di reddito. La seconda ipotesi è quella di passare al cosiddetto modello tedesco, cioè disegnare una curva continua di aliquote marginali, che coinciderebbero sostanzialmente con quelle medie effettive, da applicare per ogni singolo livello di reddito. Avendo già preso posizione su questa rubrica a favore di questa seconda alternativa (15 agosto 2020), ne richiamo i motivi fondamentali. Le maggiori attrattive del modello tedesco risiedono nella sua trasparenza e nella sua flessibilità. Trasparenza perché ogni percettore di reddito saprebbe, senza fare calcoli personali, quale percentuale del suo reddito deve versare allo Stato, che è ben diversa da quella che si legge nella sua aliquota marginale. L’argomento di chi parla di complicazione “algoritmica” o matematica per la determinazione della curva delle aliquote è fuorviante perché il compito del calcolo è dell’amministrazione fiscale, e non è complicato perché basta decidere quale debba essere, mentre al contribuente verrebbe solo comunicata la percentuale effettiva del suo reddito che deve pagare. Quanto alla flessibilità, va considerata da un duplice punto di vista. Permette di decidere in modo mirato i livelli di reddito da beneficiare oggi con una riduzione di prelievo, disegnando con precisione la curva della progressività, ma permette anche con facilità di appiattire progressivamente, in futuro, la curva delle aliquote fino al livello desiderato di reddito. In altri termini, sarebbe facile spostare verso livelli superiori di reddito la progressività del prelievo dettato dalla Costituzione, man mano che l’equilibrio della finanza pubblica lo permetterà e secondo le scelte politiche discrezionali che sono alla base della democrazia. In ogni caso, deciso il metodo, l’importante è ridurre progressivamente in misura significativa la pressione fiscale sui redditi medi e medio-bassi. Lo si dice da decenni, almeno da quando l’inflazione alta fece lievitare i redditi nominali, ma non quelli reali, con la conseguenza che le aliquote concepite per redditi medio-alti finirono per colpire anche i medio-bassi. Il dibattito sul fiscal drag, come venne chiamato il fenomeno, fu intenso ma senza effetti rilevanti. La fame di gettito fiscale a fronte di spesa pubblica crescente, purtroppo non per investimenti, ha fino a oggi sempre collocato questa esigenza di correzione del prelievo nella cartella dei buoni propositi.
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